Domenica 9 ottobre

2Re 5,14-17; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

Due parole forti: il comando di Gesù ai dieci lebbrosi (“Andate a presentarvi ai sacerdoti”) come se la guarigione fosse già avvenuta nel fatto stesso di aver incontrato Gesù e di averlo supplicato. La seconda parola forte di Gesù è al Samaritano che torna a ringraziarlo: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. La liberazione si compie quando si ringrazia perché si è stati risanati. Il ringraziamento – l’Eucaristia! – è salvezza.

Fra i dieci guariti, solo lo straniero, il samaritano, ritorna da Gesù. Perché uno solo? È un mistero; se lo chiede anche Gesù. Certo è un avvertimento a Israele e a ognuno – anche oggi, nella Chiesa – a non considerare la salvezza un possesso; essa è – innanzitutto – consapevolezza di essere stati salvati; è sguardo su noi stessi e vederci guariti da Dio e per questo ringraziarlo. La lebbra univa i dieci; dopo la comune guarigione, però, vien fuori la differenza: uno sente il bisogno di riavvicinarsi a Gesù. Tutti siamo salvati, la Chiesa è la sposa che ringrazia. E il Signore continua a cercare ancora gli altri nove che ancora mancano.

È la sola volta che un discepolo chiama Gesù “Maestro”; prima e ancor più della guarigione, il grido è “Abbi pietà di noi!”, la preghiera essenziale, il farmaco salva-vita. E il ringraziamento è l’esaltazione perenne, il canto della sposa che onora lo Sposo. Il samaritano che torna indietro, solo fra i dieci, è colui che si è reso conto che c’è una cosa più importante della salute, la relazione con Gesù e l’andargli dietro, da discepolo, fino a Gerusalemme. La malattia serve ad alzare la voce, fino al grido, e supplicare da Gesù misericordia: “Signore, pietà”!