El Nino mette in ginocchio lo Zimbabwe: niente acqua né raccolti Cambiamenti climatici avversi e piogge scarse rendono impossibile la vita a milioni di persone in Africa meridionale. Zambia, Zimbabwe, Botswana e Namibia affrontano una delle stagioni più calde e aride degli ultimi 40 anni. E alla base di tutto c’è il fenomeno El Niño. Calamità naturale. La crisi climatica si tocca con mano quando la siccità dimezza i raccolti e brucia le poche risorse. In particolare il fattore meteo che surriscalda gli oceani, El Niño, ha messo in ginocchio uno dei Paesi più belli dell’Africa australe: lo Zimbabwe. Grande poco più della Germania e ricco di parchi naturali, è rimasto praticamente senz’acqua. I raccolti di mais e tabacco si sono dimezzati: la stagione delle piogge ha fatto completamente cilecca quest’anno. “Le piogge quando ci sono, sono una benedizione”, racconta al telefono suor Antonietta Giberti (nella foto), 76 anni, missionaria delle Maestre pie nello Zimbabwe dal 1996. “È estate da novembre a marzo qui – dice – e di solito l’estate porta molta pioggia e consente di coltivare il mais col quale si fa la sadza di farina bianca. Una specie di polenta che è l’unico cibo locale assieme alle verdure”. Quest’anno non c’è modo di risollevare un’economia basata sull’agricoltura di sussistenza (e sulle miniere d’oro, di platino e litio che però arricchiscono solo una minoranza). Tanto che il presidente Emmerson Mnangagwa ha dichiarato la “calamità naturale”. “Oggi il grano non c’è più”. Mancano all’appello due miliardi di dollari per far fronte alla carestia che avanza. Il problema di El Niño è che si è “incattivito” per via dei cambiamenti climatici: avanza in modo irregolare e influenza le temperature dell’oceano più di quanto facesse dieci anni fa. “Questa potrebbe essere una terra ricca – ripete suor Antonietta –. Al tempo degli inglesi lo Zimbabwe era chiamato il granaio d’Africa! Oggi di grano non ce n’è più”. Sadza da colazione a cena. Le stesse difficoltà le affrontano i missionari Clarettiani, nello Zimbabwe dal 2002: in questi venti anni di missione hanno vissuto molti cambiamenti, non tutti in meglio. “Oggi, 20 anni dopo il nostro arrivo, siamo nove missionari Clarettiani in Zimbabwe e 8 giovani che studiano da sacerdoti. Siamo chiamati a vivere in comunità interculturali seguendo le orme di Gesù, predicando la gioia del vangelo”, affermano. Con la dipartita del “coccodrillo” Mugabe, il presidente che ha governato dal 1987 al 2017, la situazione economica è precipitata. “Come leader di una nazione non devi portare il Paese dove vuole andare lui, ma dove tu pensi che abbia bisogno di andare”, aveva dichiarato Emmerson Mnangagwa appena eletto nel 2018. Tuttavia oggi nei villaggi si sopravvive solo perché la gente non ha pretese: “La sadza la mangiano ad ogni pasto – racconta ancora la missionaria –, a colazione, a pranzo e a cena. Fritta in pentola, condita con il pomodoro e la cipolla; insaporita con i fagioli. Per chi ha più soldi degli altri, ogni tanto dentro ci si mette pure la carne, ma di solito la sadza è cucinata solo con le verdure”. Ogni famiglia nei villaggi attorno a Mhondoro (dove le Maestre pie dell’Addolorata hanno un orfanotrofio) “ha un piccolo campo coltivato a pomodori e fagioli: va da sé che quando non piove non c’è niente da raccogliere”. Siti minerari illegali. Ci sono anche storie peggiori che riguardano i coltivatori nei dintorni delle miniere d’oro artigianali e illegali di Gwanda, nella provincia di Matabeleland, nel sud. Qui oltre 400mila siti minerari illegali hanno devastato la terra e inquinato le falde acquifere. Gli animali nei campi muoiono e la gente sta male. Una degenerazione che ha a che fare con il commercio illegale di minerali, con la Cina, con i soldi. “È un Paese che vive grandi contraddizioni e che oggi è dominato economicamente da Cina e Russia”, dice suor Giberti. E ricorda i primi anni nello Zimbabwe: era il 1993 quando le Maestre pie mettono piede per la prima volta nel maestoso Paese degli elefanti (anch'essi a rischio di morire per via della siccità). Suor Antonietta arriva tre anni dopo, nel 1996: “eravamo solo due consorelle, io avevo 50 anni e mai ero vissuta in Africa, non parlavo neanche l’inglese. Lavoravamo nella parrocchia di Harare, poi la domenica si andava nei villaggi ad incontrare le famiglie e si visitavano le comunità cristiane: neanche ci capivamo bene a parole, erano i gesti e l’amore a fare la differenza”. La scuola nella discarica. L’istruzione di base manca del tutto e loro che sono insegnanti vorrebbero lavorare con i bambini. Ma passeranno molti anni prima di realizzare il sogno di una scuola: solo nel 2008 l’occasione arriva con un terreno lontanissimo da tutto, dentro una discarica. “Eravamo a Chegutu, nella provincia del Mashonaland. Costruimmo una scuola primaria per 600 bambini, non c’era nulla nei dintorni – racconta – e quello stesso sito era praticamente una enorme discarica che svuotammo”. Dopo alcuni anni, tornata a Chegutu suor Antonietta si rese conto che tutto attorno alla scuola si era sviluppato un vero e proprio villaggio. Centinaia di piccole capanne e di casette di mattoni che le famiglie avevano costruito proprio accanto alla scuola dei loro figli. (*) redazione "Popoli e Missione"Ilaria De Bonis (*)