Il fuoco acceso nelle stanze fredde e squallide del carcere “Ciao Pierpaolo, che bello vederti, da tempo ti aspettavo, sarà bello stare insieme”. Non mi guardai attorno perché non erano parole pronunciate da voce umana, ma l’eco di una sensazione che mi stava invadendo il cuore. Ero appena entrato per la prima volta in un carcere, inconsapevole del fatto che stavo mettendo in gioco le mie convinzioni di credente cattolico, il mio rapporto con Dio e con le persone. Il preambolo era necessario per introdurre la mia esperienza. Mi reputo un cristiano normale, educato a partecipare alla messa la domenica, abituato a rivolgersi a Dio con una preghiera spesso ripetitiva, molte volte impersonale, rassegnato a servirsi delle solite frasi fatte ed abusate sia nelle richieste in positivo, sia nelle confessioni in negativo. Un cristiano da una parte probabilmente inquinato dalle vecchie convinzioni su un Dio giudice e assolutista, dall’altra spesso intimamente convinto convinzione di poter bastare a sé stesso. La mia relazione con Dio era fredda, non scaldava il cuore e lasciava poco spazio per possibili aperture sia da una parte che dall’altra. Una condizione vissuta nelle varie manifestazioni: messe, celebrazioni, incontri, preghiera personale. A cambiare le cose fu la proposta: “Progetto Sicomoro”, un progetto di giustizia riparativa vissuto all’interno delle carceri. Sotto la guida di un facilitatore, all’interno degli istituti di pena, si svolgono otto incontri settimanali tra una decina di detenuti e alcune vittime, non dirette, ma che hanno subito le conseguenze di reati simili. Le tematiche proposte sono il crimine, la responsabilità, il ravvedimento, il perdono, la riparazione e la riconciliazione. Su questi temi si sviluppa un sincero confronto tra le parti coinvolte. Le sessioni consentono a vittime e rei di raccontarsi, di mostrarsi nell’intimità delle loro ferite e delle loro debolezze e dunque di conoscersi e riconoscersi l’uno nell’altro. In parole povere: di capirsi! Il corso di preparazione è intenso e mette in risalto il ruolo indispensabile e prevalente della preghiera come sostegno ed accompagnamento per la riuscita del progetto. Questa preghiera era sia la mia personale, come facilitatore, sia quella affidata a gruppi di supporto. Nonostante mi rendessi conto delle grandi difficoltà che il progetto comportava, confesso che inizialmente la mia preghiera faticava a decollare. Era sempre meccanica, subissata dall’intima convinzione che, più che nella preghiera, avrei trovato maggior aiuto nella mia preparazione, nella mia formazione e ancor di più nell’intima convinzione che sarei stato io a portare dentro le mura del carcere la mia formazione cristiana. Non appena partito il progetto, la sensazione della premessa, di essere cioè atteso da tempo, cominciava a farsi spazio dentro di me. Intendiamoci, non come una folgorazione giunta sulla via di Damasco, ma sicuramente come la percezione che c’era qualcosa che progressivamente stava smuovendo il cuore e la coscienza. Intuivo che le inavvicinabili posizioni di chi fa il male e di chi lo subisce si stavano invece avvicinando e sempre più ero invaso dallo stupore nel vedere vittime e carnefici abbracciarsi e scambiarsi il reciproco perdono. Inutile dire che immediatamente mi resi conto che non erano certo state le mie misere parole a generare cambiamenti così evidenti e a dir poco inimmaginabili. Il Padre buono e misericordioso era presente, ci aveva accolto all’entrata, ci aveva aperto tutte quelle porte, ci accompagnava in quei tetri corridoi riscaldando col calore del Suo amore quelle stanze squallide e fredde, ma soprattutto i cuori di tutti. Questo ha cambiato tutto, ma specialmente ha cambiato me. Da quel momento, quel Padre ritrovato ha cominciato ad accompagnarmi sempre, anche nella vita quotidiana. Voglio essere onesto, non è Lui che ha cominciato ad accompagnarmi, sono io che ho cominciato ad accorgermi che Lui mi accompagnava da sempre. Naturalmente è cambiata la mia preghiera perché è cambiata la mia relazione con Lui, perché per me la preghiera è proprio il rapporto tra me e Dio Padre, tra me ed il prossimo. Probabilmente tutto questo non si vede esternamente, forse perché la mia razionalità e la mia timidezza pretendono ancora rispetto. Posso assicurare però che il fuoco che si è acceso nel mio cuore è caldo ed ardente, che il mio colloquio con il Padre è vivo e costruttivo. Una confidenza finale: ancora adesso, dopo molti anni, ogni volta che varco i cancelli di un carcere mi sento accolto ed avvolto dall’amore impetuoso del Padre e sorrido quando ripenso al Pierpaolo che pensava di portare in quei luoghi e nel mondo in generale la sua visione ristretta di Dio, le sue convinzioni, la sua preghiera fredda ed asettica.Pierpaolo Trevisan