Nicola Calipari. Giuliana Sgrena: “Gratitudine e dolore per la libertà”

In occasione del 20° anniversario dalla morte di Nicola Calipari, la Questura di Cosenza ha intitolato a suo nome, nei giorni scorsi, la Sala Conferenze. Calipari fu ucciso durante un'operazione di salvataggio della giornalista Giuliana Sgrena, intervistata, per l'occasione, dal settimanale della diocesi di Cosenza-Bisignano, “Parola di Vita”. Riproponiamo ampi stralci dell'intervista, uscita il 2 aprile, rimandando per la versione integrale alla pagina www.paroladivita.org

Questura di Cosenza (Foto Parola di Vita)

In occasione del 20° anniversario dalla morte di Nicola Calipari, Dirigente Superiore della Polizia di Stato e Medaglia d’Oro al Valor Militare, la Questura di Cosenza ha intitolato a suo nome, nei giorni scorsi, la Sala Conferenze. Calipari venne ucciso a bordo di una Toyota Corolla grigia, vittima del ‘fuoco amico’ americano mentre portava in salvo la giornalista de “Il Manifesto”, Giuliana Sgrena, prigioniera di un gruppo armato jihadista. Era il 4 marzo 2005. Perse la vita portando a termine l’operazione con l’agente Andrea Carpani, sopravvissuto all’assalto. Per l’occasione il settimanale della diocesi di Cosenza-Bisignano, “Parola di Vita”, ha intervistato Giuliana Sgrena.

Quali le emozioni ed i pensieri nel ricordare quei momenti?
Quando pensavamo che la questione fosse risolta e ci stavamo avvicinando all’aeroporto, ero sotto shock. Nel momento in cui stavo realizzando di essere libera, gli americani ci hanno sparato addosso. Non conoscevo Nicola Calipari, né nessuno dei servizi segreti. Ma da subito mi ha trasmesso un senso di grande affidabilità. Calipari mi ha buttato giù tra i due sedili, coprendomi col suo corpo. Quando non ho più sentito la sua voce, ho capito che era successo qualcosa di grave. Quello è stato per me il momento più pesante e pieno di ricordi perché sentire una persona che ti muore addosso è una sensazione che non potrai mai dimenticare in tutta la vita.

Non ho mai potuto essere felice della mia liberazione, perché quel giorno segna la sua morte.

(Foto ANSA/SIR)

Sono ricordi che trovano rinnovo nei vari anniversari come la ricorrenza del mese della mia prigionia; quest’anno è maggiormente sollecitato dalle varie interviste e dalla recente uscita del film “Il Nibbio” che rievoca questa vicenda. È per me un momento drammatico nel quale rivivo la storia di quel mese e la fine di quel mese. Quest’anno è particolarmente dura per questo motivo ma continuerò a dare la mia testimonianza come ho sempre fatto in tutti questi anni.

Uno dei suoi sequestratori le rivolse una frase che fece presentire la possibilità della tragedia.
Dopo la trattativa mi dissero che mi avrebbero liberata ma che avrebbero avuto problemi per il trasferimento, perché il territorio era presidiato da truppe americane. Poi, prima della liberazione, mi dissero che non dovevo essere riconosciuta, altrimenti sarebbe scoppiato uno scontro a fuoco. Mi fecero intendere che la macchina fosse imbottita di esplosivo e mi dissero di aver promesso alla mia famiglia di farmi arrivare sana e salva in Italia, ma che gli americani non volevano che tornassi viva. All’inizio non diedi a quella frase molta importanza, ma dopo l’accaduto ho cominciato a riflettere su quanto era successo.

Il film trasmette bene la percezione lenta del tempo trascorso durante la prigionia.
Assolutamente. Stavo sempre in una stanza buia. Vedevo se era giorno o notte solo quando andavo in bagno, attraverso una piccola finestra. Mi avevano tolto tutto, anche l’orologio. Seguivo il tempo tramite i richiami del Muezzin. Per contare i giorni, facevo dei nodi sulla frangia della mia sciarpa. Non potevo fare nulla: né leggere, né scrivere.

Giuliana Sgrena

La tortura psicologica è stata devastante. Non ho mai temuto violenze fisiche, ma la mancanza di riferimenti è stata destabilizzante.

Cosa le ha dato forza in quei giorni?
Ho pensato molto a quello che mi era successo, al mio lavoro. Nonostante tutto non ho mai messo in discussione il mio modo di lavorare. Cercavo le notizie in prima persona non affidandomi ad altri che potessero recuperarle per me, come avveniva per altri. In quel periodo i giornalisti non uscivano dall’albergo, un po’ per paura, un po’ perché gli editori evitavano di farli rischiare. Ecco, io questo non l’ho mai fatto, ma penso sia stato un bene perché è stata una grande scuola di giornalismo. Di questo ero convinta ed ho continuato a farlo, anche dopo, quando ho ricominciato a lavorare. Questa convinzione mi ha sempre sostenuta. Ho seguito molte guerre per il giornale: la Somalia, poi l’Algeria, l’Afghanistan. Il mio lavoro ha sempre comportato dei rischi, ma ho sempre adottato delle misure per evitare che succedesse qualcosa, anche nelle situazioni più pericolose. Ciononostante, ne ho sempre parlato perché penso che raccontarle sia il modo migliore per cercare di evitarle o perlomeno far capire all’opinione pubblica quali disastri ne conseguono.

Ho sempre cercato di raccontare queste guerre dalla parte della popolazione civile che è quella che soffre maggiormente. Questi due elementi mi hanno permesso di resistere: la mia è stata una sorta di resistenza.

(*) “Parola di Vita”

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