Don Petreni: “A Roma rimangono zone di solitudine e sofferenza”

“Ricucire lo strappo: oltre le disuguaglianze”: è questo il tema dell’assemblea diocesana di Roma a conclusione del percorso portato avanti a partire da febbraio in occasione del 50° anniversario del convegno sui “Mali di Roma”. E quale posto migliore se non Corviale e il suo palazzo, quale per affrontare il tema delle disuguaglianze. Ne abbiamo parlato con don Gabriele Petreni, della Fraternità dell’Incarnazione, che proprio a Corviale vive ed opera, offrendo uno spazio di preghiera, vicinanza e ascolto per la popolazione del palazzo lungo un chilometro

Foto Mauro Monti

“Ricucire lo strappo: oltre le disuguaglianze”: è questo il tema dell’assemblea diocesana di Roma a conclusione del percorso portato avanti a partire da febbraio in occasione del 50° anniversario del convegno sui “Mali di Roma”. E quale posto migliore se non Corviale e il suo palazzo, quale per affrontare il tema delle disuguaglianze. Ne abbiamo parlato con don Gabriele Petreni, della Fraternità dell’Incarnazione, che proprio a Corviale vive ed opera, offrendo uno spazio di preghiera, vicinanza e ascolto per la popolazione del palazzo lungo un chilometro.

All’epoca del convegno sui mali di Roma nella capitale, soprattutto nelle periferie, erano presenti emarginazione, analfabetismo, povertà, criminalità. La vostra presenza nel palazzo costituisce un luogo di preghiera, di ascolto, di vicinanza per tante famiglie e persone sole che lo abitano. Dal vostro osservatorio le emergenze e le disuguaglianze emerse 50 anni fa sono le stesse di oggi?
Il comune ha completamente smesso di pensare a costruire nuove case popolari e si vogliono chiudere tutte le residenze di emergenza perché non ci sono fondi; il panorama edilizio dello stato, comunale e regionale, a noi sembra completamente allo sbando e oggi forse le case ci sono ma non le sappiamo gestire, sono troppo grandi rispetto alle esigenze di famiglie composte oggi da una o due persone e non più da cinque o sei come cinquant’anni fa. Non ci sono forse più grandi zone di baraccati all’interno del raccordo ma rimangono le zone di solitudine e sofferenza e la frantumazione della famiglia che crea un disagio spaventoso. Non siamo preparati, siamo sempre in ritardo. Il Convegno ci dà l’occasione di riprendere i temi di cinquant’anni fa e se vogliamo avere questa dimensione profetica dovremmo darci una grande svegliata, riscoprire il desiderio di lavorare e di interloquire con una società che fa una fatica enorme. È davvero una situazione che per tanti aspetti ci sembra più complessa e più difficile. Appoggiamo questo metodo sinodale, di tavoli permanenti, in cui ascoltare e far fronte comune con qualunque forza e persona di buona volontà; non tanto una Chiesa che interviene, decide, determina, forse questo non è più il tempo, non ci sono più le condizioni; però la gioia di appartenere ad una Chiesa che come madre vuole essere più vicina ai suoi figli più deboli e più fragili. Questa è la bellezza di questo convegno riproposto alla vigilia del Giubileo come dimensione permanente ed importante della nostra Chiesa.

Nel 1974 si parlava anche di sradicamento dai propri territori in riferimento ai tanti immigrati del Sud Italia costretti ad abitare spesso in baracche per via dell’estrema emergenza abitativa. Oggi il fenomeno si ripete con popolazioni che arrivano dal Sud del mondo, questa volta anche di religioni diverse. Dal vostro osservatorio valutate questo aspetto come un’ulteriore difficoltà che si aggiunge ai tanti problemi?
Le difficoltà aumentano ma mi permetto di dire che queste persone che vengono dal sud del mondo prendono ancora sul serio il fatto religioso, mentre per noi il tema della fede, dell’ascolto della Parola di Dio, della preghiera sembrano discorsi sorpassati e inutili. Per queste famiglie, anche musulmane se non dell’America latina, il fatto religioso è un fatto importante, serio, che ancora decide uno stile di vita; noi invece ci ritroviamo dietro alle solite polemiche infantili come quelle sul Natale, senza accorgerci che non abbiamo più la grazia e la gioia di appartenere a Cristo. A volte il confronto con queste persone può rappresentare per noi uno stimolo per tornare a rendere veramente gloria a Dio per questo dono immenso che abbiamo ricevuto della fede cristiana.

Voi come comunità siete presenti anche in altre zone periferiche della capitale, come Bastogi e l’Idroscalo di Ostia. Esistono problemi specifici e quindi disuguaglianze in quelle zone?
L’Idroscalo è una parte di Ostia dove lo Stato ancora non sa se abbattere il quartiere abusivo o investire per riqualificare; è una sacca particolarissima dalle condizioni di vita non degne di una capitale europea, dove la politica da cinquant’anni tiene in una specie di limbo queste persone, sperando forse che sia il Tevere, o le inondazioni o il mare a risolvere questo problema spazzando via tutto. Il Municipio di Ostia è stato commissariato per mafia; è una zona estremamente ricca ma sotto le mani dei clan mafiosi. È un quartiere piccolo diventato famoso per l’uccisione di Pasolini nel quale si vive in una completa anarchia, dalla fragilità estrema: basta la pioggia, il fiume, un po’ di mare grosso e queste persone sono a rischio di essere spazzate via; eppure sono legate a questo posto che con poche migliorie tecniche potrebbe essere messo in sicurezza. Ci sono progetti di riqualificazioni e di costruzioni di nuove palazzine e alloggi popolari ma è tutto fermo da tanti anni. Bastogi era uno dei residence che il comune aveva messo a disposizione di chi era in lista per la casa popolare ma non poteva più rimanere in strada; il problema è che poi sono state trasformati magicamente in case popolari a tutti gli effetti ammassando famiglie anche di 5 o 6 persone dentro monolocali. Ci sono anche lì grandi progetti di riqualificazione ma a tutt’oggi rimane una zona che soffre di un grande degrado fisico, morale e strutturale. Corviale, un palazzo di 1250 famiglie, è una struttura unica in tutto il mondo, non è stata mai compresa, né gestita, né aiutata a stabilire delle regole condominiali che potessero almeno salvaguardare un minimo di convivenza. Oggi questo palazzo rischia di svuotarsi perché tantissime famiglie sono composte da una sola persona, per lo più anziana, e quindi rischia di diventare una gigantesca struttura dove è difficile muoversi e dove i contatti anche a causa degli ascensori sempre in grave crisi, diventano difficili. A livello di gestione ordinaria siamo abbandonati a noi stessi.

 

 

 

 

Una delle prime affermazioni di Papa Francesco del suo pontificato è stata quella di vedere la Chiesa come un ospedale da campo, un’affermazione che si lega benissimo se pensiamo al tema del convegno sui mali di Roma. Quali responsabilità il cristiano deve prendersi di fronte alle attese di giustizia e carità?
Questa visione è una delle più profetiche che Papa Francesco ha avuto, una frase semplicissima ma che decide il volto della Chiesa. In questo volto noi proviamo a riconoscerci. È importante l’ascolto della Parola di Dio, essere presenti sul campo, come parrocchia e come forze buone presenti sul territorio, con una forte identità e una forte esperienza di formazione cristiana. E poi è necessaria una capacità di relazione, di condivisione e di collaborazione un po’ più forte di quella che ancora oggi in tante realtà, in tante esperienze di Chiesa, si vede. Abbiamo bisogno di una identità cristiana forte e di una grande capacità di ascolto e di condivisione.

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