Dev’essersi inceppato qualcosa sulla strada dell’autonomia regionale. Di sicuro qualche bell’intoppo, sia contenutistico sia metodologico. Fatto sta che, già prevista nel disegno nazionale generale (concessa solo ad alcune regioni o province “privilegiate”) e confermata e tendenzialmente ampliata nel 2001 dalla riforma del Titolo V della Costituzione, varata addirittura dal centrosinistra per fronteggiare l’invadenza prorompente della Lega, ora sembra invece un’eresia.
Qualche lettore ricorderà che, a suo tempo, anche tutti i nostri settimanali diocesani veneti (ma anche altri) la sostenevano a spada tratta persino con editoriali comuni; e in Regione Veneto tutti i partiti facevano a gara ad esserne i migliori e più affidabili paladini, elencandola pomposamente nei programmi elettorali. Poi, a combattere strenuamente, è rimasto solo l’attuale presidente Luca Zaia che ne ha fatto ormai una bandiera anche contro alcuni capi e buona parte del suo stesso partito. Da quando poi l’autonomia, tradotta in “differenziata”, è parsa concretizzarsi – ora addirittura proprio con un voto in parlamento – come un fantasma a lungo sognato e/o paventato, in molti ancora si sono ritirati in bell’ordine. Si grida allo scandaloso scambio “autonomia-premierato” all’interno dell’attuale conflittuale maggioranza. Si denuncia lo sfaldamento della nazione. Si stigmatizza l’egoismo delle regioni nordiste. Si ragiona contraddittoriamente sull’inderogabile solidarietà. Ci si appella al principio di sussidiarietà a corrente alternata a seconda delle prospettive. Ma certo qualcosa dev’essere cambiato se, dalle ultime inchieste, risulta che solo i due terzi degli intervistati del Nord (contro la schiacciante maggioranza precedente, referendum compresi) giudicano positivo l’impatto che l’autonomia differenziata in votazione avrebbe sul Paese; il 38% del Centro e uno striminzito 11% del Sud (e Isole).
Nonostante gli sforzi dei proponenti per evidenziare e assicurare i “livelli minimi essenziali” dei servizi per tutti i cittadini, quasi la metà degli italiani – facendo media – la ritiene ora “inopportuna e sbagliata” perché favorirebbe le zone più ricche.
Convinti dell’urgenza della riforma al Nord sarebbero rimasti solo il 53%, il 29 al Centro e il 14 al Sud. Pur risultando queste percentuali ampiamente prevedibili nella loro dislocazione e risultando comprensibili i timori di quanti si sentirebbero ulteriormente e ingiustamente emarginati, non può non sorprendere il fatto che, sostanzialmente, si preferisce lo “status quo”. Anche a livello ecclesiale si sono levate voci allarmate su una tale attuazione dell’autonomia che recherebbe ulteriore danno all’unità del Paese e aggraverebbe sperequazioni tra Nord e Sud. Nella medesima inchiesta, resa nota nei giorni scorsi, l’80% degli italiani ammette che il ritardo del Sud blocca tutto il Paese; ed anzi il divario tra le due zone della Penisola si sarebbe aggravato negli ultimi cinque anni. Inutile ricordare che pressoché tutti i governi si sono riproposti, fin dalla nascita della Repubblica, di riequilibrare la situazione socio-economica, già da tempo palesemente difforme. Le strategie non sono mancate, ma gli effetti non si sono visti; anzi, appunto, la situazione sembra degenerare. Tanto più che i tentati consistenti e favoriti investimenti non hanno fruttato nemmeno a sufficienza e l’esodo dal Sud, specie dei giovani, non è diminuito. E se questa benedetta (o maledetta) “autonomia differenziata” che prevede il trasferimento di alcune (gradualmente variabili e richiedibili) competenze alle Regioni (tutte) che potrebbero trattenerne e gestirne il gettito fiscale – ma sempre con congrue quote destinate a sostegno di altri territori – si trasformasse in una salutare sferzata alla “consuetudine” del divario (sia di amministrazione che di intraprendenza) tra le “due penisole”, potrebbe sì tradursi in novità, foriera di venti nuovi. E’ vero che non c’è la controprova che arriverebbe solo fra anni e, dunque, la prudenza è mai troppa; ma c’è da riflettere.