“Il trentesimo anniversario dell’uccisione di don Peppe Diana ci richiama al suo essere uomo vero, un credente ed un prete vero, consapevole dell’irrinunciabile vocazione ad essere protagonista della storia e perciò assolutamente mai disposto a lasciare che una certa assuefazione collettiva della società umana, particolarmente della sua terra, della terra in cui viveva, dovesse continuare a rimanere piegata sotto lo schiacciante peso della prepotenza camorrista”. Lo scrive il vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo, nel documento “Trent’anni di voci sulle terre di don Peppe Diana”, a cura delle donne e degli uomini delle terre di don Peppe Diana, in cui viene riproposto il famoso documento “Per amore del mio popolo”, scritto da don Peppe e i parroci della forania e distribuito nelle parrocchie a Natale 1991. Abbiamo intervistato il vescovo Spinillo, in occasione del trentennale dell’uccisione di don Diana.
Sono passati 30 anni da quella tragica mattina del 19 marzo 1994: cos’è cambiato in quelle terre che un tempo erano il regno dei casalesi?
Oggi la situazione è molto diversa perché ci sono tante persone che hanno intrapreso un cammino di riscossa. L’ondata tanto dura di violenza che ha segnato quegli anni oggi non si registra più in quella forma di prepotenza camorristica. È vero che la camorra ha cambiato modo di intervenire sulla realtà e negli affari, ma tanta gente ha modificato il suo modo di agire. Prima quando una persona veniva uccisa si diceva: “Sicuramente avrà dato disturbo a qualcuno” e così quasi si legittimava una violenza che metteva a tacere chiunque dava problemi a chi in quel momento deteneva un potere di prepotenza. Oggi questo non si dice più. Sono nate nel frattempo tante esperienze di cooperazione e dialogo, si è fatto tanto lavoro con le scuole, c’è tanta consapevolezza nuova della realtà. Tutto questo è il segno di un grande cambiamento positivo avvenuto nel territorio. Forse, permane ancora qualcosa da migliorare come mentalità diffusa, perché c’è sempre la tentazione di affidarsi a chi può fare un favore, abbiamo ancora questa logica di ottenere risultati attraverso la compiacenza di qualcuno che poi si farà “pagare” in qualche modo l’aiuto.
Anche oggi sono molti i sacerdoti che ricevono intimidazioni: come sta al loro fianco la Chiesa?
La Chiesa è accanto ai sacerdoti minacciati innanzitutto con la presenza fisica. Sia in Campania sia in Calabria, dove sono avvenuti anche di recente episodi di intimidazioni, i vescovi e anche gli altri sacerdoti sono molto presenti e vicini a chi subisce queste minacce nel compiere il suo ministero a favore del popolo di Dio scontrandosi con forme di prepotenze. C’è questo accompagnamento e sostegno a favore di ogni confratello che esprime la verità del Vangelo da parte dei vescovi, dei sacerdoti e anche da parte di tutto il popolo sano, c’è tanta gente buona e onesta, che con limpidezza e trasparenza vive la sua fedeltà al Vangelo.
Secondo lei, l’omicidio di don Peppe ha generato un cambiamento anche nella Chiesa?
Certamente la Chiesa ha sviluppato una forma di presenza più viva anche nella società. Oggi c’è una consapevolezza diversa, anche grazie all’azione dei parroci di Casal di Principe nel Natale 1991: insieme con don Peppe Diana pubblicarono, come parroci della forania, il documento “Per amore del mio popolo”. Da quel documento si è sviluppata un’attenzione più puntuale verso la realtà, accompagnata da un desiderio di cambiare la medesima realtà, migliorandola. Oggi nei sacerdoti c’è molta consapevolezza e impegno per un mondo migliore per tutti, senza i lacci della malavita.
Come ha ricordato il documento del Natale del 1991 era firmato da tutti i parroci della forania, allora perché colpire solo don Diana?
Credo che lo riconoscessero come animatore del movimento che si era andato sviluppando.
Don Peppe, benché molto giovane, era una presenza significativa
e quando si scelse qualcuno da colpire per far arrivare fortemente la presenza dello Stato e della società sul territorio per limitare le azioni di un altro clan pensarono di colpire don Peppe, che era un simbolo della lotta contro la logica camorristica.
Pensa che la scelta della camorra di uccidere don Peppe in chiesa, mentre si apprestava a celebrare la messa, sia stata voluta per colpire proprio il prete?
Sicuramente sì e questo ricorda anche l’uccisione di don Pino Puglisi, solo sei mesi prima; ricalca quasi un rituale, oserei dire, dove si uccide la persona soprattutto per quello che rappresenta, per ciò che è in quel momento. La scelta di uccidere don Peppe in chiesa è stata molto significativa, nel giorno del suo onomastico, nel momento in cui andava a celebrare la messa. Credo che abbiano voluto lanciare un messaggio anche agli altri sacerdoti, alla Chiesa e a tutta la società di quel tempo.
Oggi don Diana riesce ancora a parlare a Chiesa e società?
Don Diana è stato certamente una figura profetica, che mi piace pensare proprio nella logica del cambiamento e della conversione.
Allora e forse anche oggi si è assuefatti all’idea che ci sia qualcuno più potente degli altri che possa condizionare in qualche modo la vita di tutti gli altri. Don Peppe forse all’inizio non aveva pensato molto a questa realtà, ma poi c’è stato qualche episodio di particolare crudeltà, di violenza ingiustificata portata avanti dai clan camorristici della zona, che lo ha come scosso e ha iniziato a essere voce che si alza per amore del popolo e che dai tetti, come scrive lui in un articolo riprendendo una frase del Vangelo, deve poter gridare che bisogna cambiare modo di vivere. Scriveva con gli altri parroci nel documento del 1991: non accada tra qualche anno di doverci battere il petto per essere stati non attenti a certe situazioni che vanno denunciate. Non si può vivere, diceva don Peppe, in una società che propone soltanto violenza e morte di qualsiasi persona che non sia allineata al sistema.
Cosa rappresenta don Peppe per i ragazzi di oggi?
Nelle scuole, nelle associazioni, nei gruppi è stato fatto tanto lavoro: la figura di don Peppe Diana è molto conosciuta, ci sono anche scuole intitolate a lui, pure nel nostro territorio, oltre che vie e piazze. Mi auguro che don Peppe non sia conosciuto solo in modo superficiale, ma possa essere ascoltato quel suo invito a non fermarsi di fronte al male, a riconoscerlo e a non tacere davanti al male, non solo per denunciarlo, ma anche per sviluppare pensieri di attenzione al progresso vero civile, sociale e anche religioso di tutta la società.
A suo avviso, l’impegno civile di don Peppe era legato al suo essere sacerdote?
Certamente sì, c’è proprio questa dimensione della conversione, come mi piace chiamarla, e in questo c’è una profezia, cioè
dobbiamo essere tutti attenti a rimodulare il nostro essere presenti nella società, a convertire continuamente noi stessi al bene comune.
Avete pensato a un eventuale cammino da intraprendere per avviare l’iter per la beatificazione di don Diana?
Per quanto riguarda l’inchiesta diocesana sulle virtù, che dovrebbe poi portare a una proclamazione di beato da parte della Chiesa, siamo fermi e cauti. Per questo abbiamo avviato una sorta di Commissione che possa raccogliere i dati più importanti della storia di quel periodo perché si possano leggere anche l’uccisione di don Peppe e la sua vita pastorale e sacerdotale in un contesto ben individuato. Credo che si debba fare un lavoro di ricerca e di rilettura storica di quel periodo perché non possiamo passare sotto silenzio ciò che è avvenuto in quel tempo e come tanta gente nostra abbia agito bene.
È stata lanciata l’iniziativa del quaderno rosso per raccogliere firme e chiedere al Papa il riconoscimento del martirio di don Diana…
Anche a me è stato chiesto di scrivere qualcosa su quelle pagine. Non è da questa iniziativa che può partire l’inchiesta, ma può spingere ad aprire il processo, a sviluppare questa ricerca, sebbene non sia determinante.