Quella sera, il 9 ottobre 1997, da un sito decisamente improprio per uno spettacolo teatrale, nei pressi della diga del disastro del Vajont, nel versante riempito dalla frana, Marco Paolini squarciò un velo.
Davanti ad un pubblico che si riparava dal freddo, in diretta su Raidue, rappresentò “Il racconto del Vajont”, conosciuto anche come “Vajont 9 ottobre ’63 – Orazione civile”, il monologo teatrale che aveva lanciato nel 1993, a trent’anni dalla caduta di quella frana che aveva davanti. Con l’aiuto di una lavagna spiegò, finalmente, agli italiani la storia del Vajont, quali furono le omissioni, le forzature, le bugie e le responsabilità che generarono quella disgrazia. Un evento che ridiede dignità e fiducia ai cittadini e alle comunità colpite, stravolte.
Paolini, cosa ha rappresentato per lei, come cittadino e come uomo di teatro, quello spettacolo del 1993, poi proposto in televisione nel 1997?
Per me la storia del Vajont voleva dire restituire giustizia a chi non l’aveva avuta. E in fondo anche mettere me stesso alla prova, perché anch’io avevo “archiviato” quella storia come un disastro naturale. Quindi è stato molto importante per me raccontare la sofferenza, l’ingiustizia, dire i nomi dei colpevoli. Trent’anni dopo, del Vajont sappiamo molto di più. Giustizia è stata fatta, la memoria è stata ricostruita.
Nel sessantesimo anniversario un nuovo spettacolo, perché?
Nel 1997 erano passati 34 anni dal disastro. Adesso, sono 60. Cos’è cambiato? Noi non siamo gli stessi. È passata una generazione, ma non è solo questione anagrafica. Da alcuni anni ho cominciato a studiare i report sul clima, a leggere i libri di chi prova a narrare ciò che stiamo vivendo, a misurare le strategie del negazionismo prima e del populismo poi nel cavalcare i luoghi comuni che contrastano il quadro scientifico, giustificando un’inerzia diffusa alla transizione ecologica. A ogni catastrofe sentiamo ripetere parole che non servono a impedirne altre.
Stavolta è una proposta assai diversa. Come è stata pensata?
La storia del Vajont è stata anche una catena di errori. E racconta non solo ciò che è accaduto sessant’anni fa, ma quello che potrebbe accadere a noi su scala diversa, in un tempo assai più breve. Dunque oggi quello che chiediamo con questa occasione, è di riflettere sugli errori più che sulle colpe. E di riflettere ragionando sulla complessità delle storie di tutto il nostro Paese. Per questo è un Vajont con la “esse”, al plurale, perché le situazioni di fragilità idrogeologica dell’Italia e le nuove situazioni di siccità a cui la crisi climatica ci espongono richiedono anche al mondo del teatro, dell’arte in generale, di occupare un ruolo civile, di “colla sociale” tra i cittadini.
È questo il senso del coro che noi abbiamo messo in campo per il 9 ottobre 2023, una partitura suonata, eseguita, narrata, detta da centinaia di artisti in tante parti di questo Paese in contemporanea. Un coro che chiama i cittadini senza fornire loro delle risposte tecniche, senza indicazioni politiche su che cosa bisogna fare. Non compete a noi la direzione politica. Ma ci compete rimettere i cittadini in una presenza attiva di quella che noi chiamiamo Prevenzione civile. Quindi un ruolo prepolitico del teatro, rispetto al quale però la politica oggi non è in grado di rispondere, perché divisiva. Dunque noi abbiamo bisogno di ricostruire questo tessuto, e storie come quella del Vajont ci aiutano a rimettere insieme le persone. Le altre storie dobbiamo imparare a raccontarle.
(*) precedentemente pubblicato su “L’Azione” (Vittorio-Veneto)