Silenzio: un atteggiamento umanamente non facile, specialmente quando non si sta bene. Ma la fede mi aiuta perché so che Dio sa tutto di me, da sempre; mi scruta e mi conosce, sa quando sono seduto e quando mi alzo, scorge il mio pensiero (Salmo 139). Con le parole di questo Salmo nel novembre scorso, appoggiato al nostro vescovo, ho comunicato ai membri dei Comitati delle parrocchie la mia malattia e il fatto che il decorso di guarigione sarebbe stato lungo. Sì, il Signore conosce la mia vita, la mia vocazione, il mio essere prete; mi ha guidato e mi guida anche in questa situazione. Certo non tutto era chiaro, avrei voluto diversamente, fin da quando ho scoperto la malattia, ma in ogni momento cerco di trovare il progetto che Dio ha su di me: vivere il servizio, donarsi agli altri.
Così si apre una finestra: anche la malattia può essere servizio, dono di esperienza, maturazione, cammino. E come si sa, il cammino non è sempre pianeggiante: a volte è in salita, come quando si va in montagna, a volte in discesa come l’acqua che scorre, lava e purifica. Come vorrei che da quell’acqua fosse sanato tutto il male attorno a me! Se poi guardo a una cascata, vedo la forza dirompente e trovo il silenzio per ascoltare me stesso.
Da me agli altri. “Ascoltare è fissare l’attenzione su un volto” scrive il vescovo Lauro nella sua ultima Lettera, “per interpretare anche i silenzi con cui ci parlano tante umanità ferite e in preda alla nostalgia della speranza.” Gli altri, la Comunità, le persone che mi invitano alla speranza, quella di un “tornerai presto fra noi, guarirai, siamo con te, facciamo il tifo per te”. Una Comunità vicina a me e io vicino ad essa, spiritualmente e con la preghiera. Una Comunità, 12 parrocchie, chiamate a fare i conti con un parroco ammalato, che non celebra in pubblico, assente fisicamente. I laici che si interrogano su come fare ad essere attivi con i preti ospiti che arrivano per le Messe. Grazie al Cielo dopo un mese dalla mia “assenza” è arrivato don Michele, che va ringraziato ma anche aiutato ad orientarsi e svolgere il suo servizio.
Scrive il vescovo nella Lettera “sento l’urgenza di rinnovare l’appello a fermarsi, sollevare la testa e guardarci attorno”. E ancora “la Chiesa è chiamata a non essere estranea a tutto ciò che è umano”. Se dunque io con la malattia riscopro la mia umanità, anche la Comunità ritrova il bisogno di umanità nel prete, di fraternità perché siamo insieme in cammino. Tutto questo in un dialogo costante che diventa anche “comunicazione”, cioè “come unica azione”: lavorare insieme e portare gli uni i pesi degli altri. Per questo quasi tutti i mesi ho trasmesso alle Comunità l’andamento delle terapie e come stavo reagendo. Questo è vivere cristianamente la malattia.
Concludo tornando all’esempio dell’acqua: purifica e “rigenera”, lavora le rocce e i sassi fino a farli rotondi, fertilizza il terreno dove il seminatore getta il seme e lo fa germogliare. Una persona, che ringrazio, mi ha suggerito la parola “rinascere” per descrivere quello che vivrò. La cura che faccio è proprio un lasciarmi impoverire per poi riprendere forza, rinascere, risorgere. Chiamato a lasciarmi lavorare, modellare da Dio. “A Dio che si rivela nell’uomo, nulla dell’umano può essere estraneo” scrive il vescovo. Questo Dio mi è vicino, mi conosce, è mio rifugio e conforto, con Lui non temo alcun male. Guardo al Crocifisso e mi sento capito da Lui, è Lui la Luce nella notte. Così quello che vivo diventa dono per me e agli altri. Tante persone attorno a me soffrono più di me, magari per malattie che ancora sono incurabili. Ci sono tanti malati che lottano più di me. A loro vorrei essere vicino con la presenza più che con le parole, per trasmettere speranza. Una scritta all’ospedale dice così: “La speranza vede l’invisibile, tocca l’intangibile e raggiunge l’impossibile”. Questo vale ancora di più se è Speranza in un Dio fedele che si chiama Gesù. Che la Speranza arrivi a tutti, perché per tutti si raggiunga l’impossibile.
(Pubblicato su “Vita Trentina”)