C’è una cosa più di ogni altra che il terzo scudetto del Napoli potrebbe e dovrebbe favorire: liberare questa città, ancora troppo legata e imprigionata ai suoi folkoristici cliché. Impresa non facile in una città sempre troppo slanciata in avanti o troppo ritratta nel suo brodo primordiale, anche perché modernità e antropologia a Napoli da sempre sono simboli di speculazione ed eccesso, di interessi non sempre leciti e hybris.
Lo aveva capito uno dei suoi cultori più attenti e appassionati, il compianto storico dell’architettura Benedetto Gravagnuolo, che per Napoli aveva coniato la formidabile definizione di città dell’arcaismo ultramoderno, dove vige un’opposizione temporale mai risolta dei suoi caratteri urbani, quasi che antico e moderno siano destinati a scambiarsi continuamente i ruoli.
Dobbiamo sapere guardare indietro: radici, tradizione, memoria; e sapere guardare avanti: futuro, fiducia, attesa. Lo scudetto è un invito a non disperdere le energie per condividere “assieme” la grande responsabilità della costruzione del bene comune. E perché questo avvenga ci vogliono idee, competenze e coraggio, così come hanno dimostrato la squadra del Napoli con tutti i suoi uomini, calciatori e dirigenza.
Quella toppa tricolore che adornerà le future maglie dei vincitori, che mancava sulla casacca azzurra da trentatré anni, l’ultima stagione partenopea di quel D10S riccioluto nato argentino e vissuto napoletano, genio ribelle che ha portato Napoli e il Napoli alla ribalta, dev’essere anche il simbolo di una stagione nuova per l’intera città metropolitana. Quella toppa tricolore non può non rilanciare il duplice tema del rapporto tra Napoli e il Mezzogiorno, Napoli e l’Italia.
Il primo è un tema antico che meriterebbe di essere scritto in maniera inedita. Storicamente, infatti, tale relazione si potrebbe sinteticamente descrivere come quella che passa tra una testa troppo grande e un corpo troppo esile e che ha portato entrambi – la testa e il corpo – a soffrire per la disarmonia. In questa cornice rientra anche il rapporto di Napoli con l’Italia, storia d’amore e d’incomprensioni.
I napoletani, che ci piaccia o no, vedono nel Napoli la proiezione dell’acquiescente questione meridionale, dei pregiudizi graffianti, del razzismo con cui l’Italia non ha mai realmente fatto i conti. La geografia sociale insegna che più cresce la discriminazione esterna e più una comunità si stringe intorno a un perno, che può essere culturale – si pensi alla persistenza della memoria nei confronti di Totò, Eduardo de Filippo, Massimo Troisi o Pino Daniele -, storico, geografico e anche sportivo.
Sostenere l’assenza di problemi vorrebbe dire non essere intellettualmente onesti; discutere sulle radici di tali asperità significa invece mettere in moto il ragionamento critico. La nostra città è indietro in tante classifiche per la qualità dei servizi offerti. Certo qualche passo in avanti è stato fatto: è la città con il maggior aumento di presenze turistiche; ha l’aeroporto con il maggior tasso di crescita; è nella top ten dei luoghi da vedere nel mondo per la Cnn; ha i poli museali con i maggiori incrementi.
E qui, per fortuna, ci sono più di tre cose da cui ricominciare. Ma non basteranno se non si avrà la capacità di operare una necessaria e seria riflessione politica perché Napoli e i napoletani ritrovino quel senso di appartenenza chiaro, capace di rafforzare il sentimento di comunità e tramandare un’identità che anteponga la bellezza al risultato, l’insieme al singolo, l’aiuto all’indifferenza., organizzando fronti consolidati e mettendo a sistema i successi. È un tema di lungo periodo che riguarda sia la classe politica sia la società civile, ovvero la ricerca di un sistema definito di governance.
Insomma lo scudetto l’ha vinto una squadra sportivamente ben organizzata e allenata e di questo siamo tutti felici. Adesso, però, attendiamo che lo vincano la città e i napoletani.