Due giovani under 35 su tre dichiarano di aver, recentemente, cambiato lavoro o di volerlo cambiare. È uno dei dati che colpisce della recente indagine svolta dal Centro Studi Cisl Vicenza (i dati sono presentati nell’articolo in basso) su quelle che sono le “grandi dimissioni”. Su questo abbiamo raccolto il commento di Raffaele Consiglio, segretario provinciale della Cisl.
Segretario, siamo di fronte a qualcosa di analogo a quello che è accaduto negli Stati Uniti con le grandi dimissioni?
Il fenomeno registrato dalla nostra ricerca non ha niente a che vedere con quello che si è visto negli Stati Uniti nel post – pandemia, ma evidenzia una trasformazione in atto da tempo nella cultura del lavoro e che investe, in particolare le giovani generazioni.
Da dove parte la vostra ricerca?
Ci ha colpito, in particolare nell’ultimo anno, la crescita importante delle dimissioni volontarie e poi di nuove assunzioni, che riguarda in particolare i giovani. Si tratta di dimissioni dovute a scelte individuali, scelte di vita, che non dipendono, quindi, da crisi aziendali. La carenza di mano d’opera di cui tanto si parla in questi mesi, fa sì che, oggi, un lavoratore possa scegliere.
E i giovani in base a cosa scelgono?
Ecco l’indagine mette in evidenza che i criteri in base ai quali i giovani di oggi scelgono sono assolutamente diversi dai criteri che caratterizzavano e caratterizzano gli over 35. Per i giovani il lavoro deve essere soprattutto conciliazione con la vita. Per loro il lavoro non è vita, ma strumento di vita, e infatti stanno scappando dai posti che richiedono lavoro festivo, pur dicendosi disponibili a lavorare, in particolari situazioni anche nei festivi. Poi c’è un’altra cosa importante che emerge.
Quale?
I giovani cercano opportunità. Ci dicono, cioè, che il salario è sempre importante, ma che è altrettanto essenziale la possibilità di crescere. Per loro è inoltre rilevante la flessibilità dell’orario. Il lavoro non è orario in uno spazio, ma creazione di valore che si realizza conciliandolo con le altre dimensioni di vita, peraltro, sempre più complicate. Tutto questo evidenzia come il lavoro sia soprattutto spazio di realizzazione della persona e non solo strumento per il reddito. Se pensiamo a 15 – 20 anni fa, vediamo come per molti lavoratori la possibilità di fare straordinari era uno dei criteri per scegliere il posto di lavoro. Oggi la situazione si è molto modificata.
Cos’è cambiato innanzitutto?
È cambiato il progetto di vita. Nell’orizzonte giovanile non c’è l’idea di farsi la casa, come era normale registrare 20-30 anni fa con la conseguente urgenza di incrementare il reddito. Per loro, come dicevo, è essenziale avere una prospettiva di realizzazione.
Ma per cosa passa questa loro realizzazione?
Semplificando possiamo dire che i giovani cercano da un lato opportunità di crescita, e quindi formazione e flessibilità e dall’altro tempo libero. Il problema è la qualità del tempo libero. Viviamo, infatti, in un contesto che offre pochi percorsi valoriali dentro al tempo libero. Il tessuto sociale offre soprattutto consumi ma pochi valori. Molto spesso la ricerca di tempo libero rischia di diventare semplice rincorsa del piacere, anche se sappiamo che ricercare il piacere è cosa diversa dal cercare la felicità. Questo è un punto sul quale tutti gli attori sociali, e dunque anche il sindacato, dovrebbero interrogarsi di più, consapevoli che noi non dobbiamo offrire solo quello che la persona chiede, ma dobbiamo anche indirizzare la crescita della società.
A quali strumenti si riferisce quando pensa a un coinvolgimento diverso anche dei giovani nel mondo del lavoro?
A questo riguardo è importantissima l’iniziativa della Cisl che partirà tra poche settimane attraverso la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione azienda, proposta che, peraltro è dentro l’alveo della dottrina sociale della Chiesa. Se è vero che i giovani ci chiedono opportunità, è giusto che noi gliele offriamo, ma che nello stesso tempo le opportunità diventino responsabilità.
Il percorso formativo dei giovani li attrezza alla capacità di cambiare?
Direi di sì. In generale sono privi di competenze specifiche e questo è il mismatch (il disequilibrio) tra domanda e offerta che spesso notiamo. Hanno però importanti competenze trasversali (le cosiddette soft skills) che permettono, in un mondo del lavoro liquido, di continuare ad apprendere per tutta la vita e riuscire ad affrontare i cambiamenti senza traumi. Va peraltro detto che il sistema scolastico veneto sta facendo a questo riguardo enormi sforzi.
La ricerca di un impiego passa anche per i Centri per l’impiego. Com’è la situazione nella nostra Regione?
È stato fatto un investimento importante che ha rafforzato questa presenza sul territorio. E’ fondamentale essere presenti nelle comunità perché così si conoscono le dinamiche di quel territorio che è diverso dagli altri e noi dobbiamo dare risposte vicine alle persone. Lo sviluppo economico e sociale di una comunità dipenderà anche da questa nostra capacità.
Questa nuova cultura del lavoro di cui i giovani sono portatori provoca anche cambiamenti nelle aziende?
Senz’altro. Penso soprattutto ai lavori del settore assistenza al cliente e alle professioni di cura alle persone. Questi lavori saranno sempre più richiesti e portano a un ripensare anche l’organizzazione del lavoro. Si tratta di lavori che vanno rivalutati anche con riferimento agli stipendi. Per questi lavori c’è e ci sarà una forte domanda di manodopera che potrà trovare reale risposta solo ricorrendo anche alla immigrazione. Credo che molte aziende siano consapevoli di tutto questo. Diventa sempre più strategico, in un’impresa, come si gestiscono le relazioni con il proprio personale. Per attirare lavoratori si deve investire sulla partecipazione, sulla formazione e sulla crescita, altrimenti il rischio è che tanti giovani soprattutto con professionalità medio alte vadano all’estero.
*direttore de “La voce dei Berici”