Far conoscere il paradigma della giustizia riparativa non solo nell’area penale, dove siamo più portati a immaginarlo, ma anche nelle scuole e nelle comunità. È l’obiettivo del progetto di Caritas diocesana veronese “Il bene di tutti. Percorsi di giustizia riparativa con le comunità”. Iniziato a ottobre 2022, continuerà fino a dicembre 2023. La Caritas diocesana veronese dal 2018 fa parte del Tavolo per la giustizia riparativa di Verona e quindi nel progetto sono coinvolti anche alcuni enti del Tavolo: Csv Verona, Don Calabria e Associazione scaligera assistenza vittime di reato.
A raccontarci l’esperienza è Alessandro Ongaro, operatore Caritas referente per la giustizia riparativa:
“Il progetto si articola in tre livelli di azioni: sensibilizzazione, formazione, attività pratiche
– ci spiega -. Per le prime andiamo nelle comunità o nelle scuole per far conoscere il paradigma riparativo, con interventi di una serata o di una mattina, calcolati su uno o due appuntamenti di due-quattro ore, dove l’obiettivo è dire che c’è un altro modo per guardare al reato o a quelle situazioni che ci sono nelle comunità che non necessariamente costituiscono un reato dal punto di vista di legge, ma hanno costituito una frattura, un’ingiustizia, un conflitto”.
Un altro livello è quello della formazione ed è rivolto a scuole, comunità, organizzazioni di Terzo settore. “L’idea – chiarisce Ongaro – è di fare un corso di formazione per far capire quali sono gli elementi essenziali e quali sono le pratiche che si possono mettere in atto con la giustizia riparativa. Questo percorso è stato avviato con le scuole: lo stiamo realizzando in tre scuole di Verona, due della città e una della provincia, due licei e una scuola professionale. Abbiamo coinvolto in totale sei classi, quindi circa 130 studenti di seconda e quarta superiore. Il percorso è articolato in dieci incontri da due ore, con cadenza all’incirca settimanale. Nelle scuole ci siamo inseriti nei percorsi di Educazione civica. Sono percorsi di formazione esperienziale, dove facciamo vivere agli studenti alcune dinamiche per far comprendere qual è il cambio di paradigma e dov’è che si può realizzare questo cambio di paradigma. L’obiettivo non è quello di formare persone che nelle scuole poi possano fare pratiche di giustizia riparativa, ma aiutare gli studenti a capire che di fronte a un’ingiustizia, un conflitto, un problema che si crea tra di loro, con i docenti o nella vita quotidiana ci si può stare in modo diverso: non con l’ottica di chi sbaglia paga, ma con l’ottica di provare a comprendere insieme dov’è il problema e cosa si può fare per affrontarlo”. Il percorso con le scuole è intitolato “Costruire giuste relazioni”.
In una delle tre scuole è stato avviato anche un percorso formativo per insegnanti, inizialmente pensato per insegnanti di religione cattolica, poi allargato anche ad altri docenti. “Il percorso con gli insegnanti, attualmente in corso, prevede quattro incontri, da tre ore ciascuno, con l’obiettivo di provare ad aiutare gli insegnanti ad assumere qualche strumento dell’approccio riparativo, ma senza andare a stravolgere il loro ruolo di docenti – racconta l’operatore Caritas -. ‘Nella relazione con gli studenti come possiamo stare?’ è la domanda da cui si parte interrogandoci su quali strumenti gli insegnanti possono usare dell’approccio riparativo, quindi come si sta in dialogo in un certo modo, come si può usare il ‘restorative circle’ per affrontare le dinamiche conflittuali che possono capitare in classe. In questo momento stiamo lavorando con 7 insegnanti”.
Il progetto prevede anche un percorso con il carcere di Verona, incontrando due gruppi di detenuti, uno con gli uomini e uno con le donne: “Abbiamo tenuto questa distinzione per esigenze della casa circondariale di Verona – precisa Ongaro -. Stiamo facendo dei restorative circle solo con detenuti e detenute. L’obiettivo è di provare a fare capire qual è l’approccio della giustizia riparativa, quindi parliamo di temi come la responsabilità, il rispetto, la verità, che sono i valori della giustizia riparativa aiutando le persone a capire il modo diverso di parlare di rispetto e verità all’interno del paradigma della giustizia riparativa. La verità processuale non è mai la verità dei fatti al 100% e quindi non hanno mai avuto la possibilità di dire tutto quello che è successo e li ha portati in carcere. Cerchiamo di creare uno spazio dove questa verità possa emergere”. Allo stesso tempo, “lavoriamo su quelle che possono essere le ingiustizie all’interno di un carcere. Il nostro diventa anche uno spazio di ascolto e di comprensione delle ingiustizie. Per esempio, con un gruppo di detenute abbiamo incontrato il garante per le persone private della libertà del comune di Verona perché durante i nostri incontri erano sorte delle domande sulla questione perché in alcune carceri è più facile avere contatti con i familiari, attraverso chiamate, videochiamate e colloqui, rispetto alla casa circondariale di Verona, situazione che è vissuta come ingiustizia da alcune detenute. Il garante ha spiegato che durante il periodo pandemico ci sono state delle concessioni maggiori, ma ora che l’emergenza è terminata alcuni istituti sono tornati al regime pre-Covid nella gestione dei contatti con le famiglie, mentre altri hanno mantenuto il regime del Covid. Così ha fatto capire che il sistema non era punitivo verso di loro. È una scelta che differisce da carcere a carcere. Questo non risolve il bisogno di sentire di più le famiglie ma ha fatto capire qual è la realtà”. In carcere “una volta ogni due settimane stiamo incontrando mediamente un gruppo di 7/8 uomini e di 4/5 donne. Il carcere di Verona conta 480/500 detenuti mediamente e le donne sono circa 60/70”.
C’è stata anche un’esperienza concreta di giustizia riparativa: “Lo scorso anno l’Uepe di Verona ha contattato la Caritas diocesana perché aveva in carico un gruppo di tifosi di calcio che avevano commesso reati da stadio, legati al tifo violento”. Questa esperienza arriva prima temporalmente del progetto “Il bene di tutti. Percorsi di giustizia riparativa con le comunità”. Come Caritas, afferma Ongaro, “ho proposto un percorso di giustizia riparativa che potesse portare a far incontrare i tifosi e gli abitanti del quartiere dove c’è lo stadio che è molto popoloso.Il gruppo di tifosi aveva compiuto reati in occasione di più di una partita e anche in trasferta. Ho pensato di coinvolgere i cittadini che vivono nel quartiere dello stadio per il disagio vissuto legato alla partita, al traffico, al fatto che spesso i tifosi sono ubriachi e quindi molesti. In occasione delle partite gli abitanti si sentono espropriati del quartiere perché è blindato da centinaia di poliziotti, è invaso da migliaia di tifosi e quindi non è più vivibile secondo loro. Quindi, ho pensato di mettere in dialogo queste due parti: cittadini che non sono vittime necessariamente di un’azione violenta da parte dei tifosi e i tifosi che non intendevano compiere azioni contro la comunità, però quello che avevano fatto, come partecipare a una carica contro la polizia, aveva creato tensione nel quartiere. I cittadini che hanno accettato di partecipare al percorso sono stati una decina. I tifosi che hanno partecipato al percorso erano in quattro, persone che hanno un lavoro e una vita durante la settimana, con una famiglia, tra i 35 e i 40 anni e per i quali il tifo violento è il modo di fare il tifo: quando i sostenitori delle squadre avversarie vengono con fare minaccioso loro ‘difendono’ il loro territorio, ma in una logica da guerriglia”. Il referente Caritas prosegue: “Abbiamo fatto quattro cinque incontri con i tifosi, abbiamo anche ascoltato l’esperienza della denuncia per i reati compiuti; parallelamente abbiamo ascoltato i cittadini e abbiamo chiesto se volevano incontrarsi. Così abbiamo organizzato un unico circle anche se non stavano materialmente nella stessa stanza perché i tifosi violenti non volevano farsi riconoscere, per non avere ripercussioni sulla vita futura. È stato un incontro in video conferenza, ma senza che i tifosi fossero visibili ai cittadini. I tifosi ci tenevano a puntualizzare effettivamente quello che hanno fatto e di essere riconosciuti come persone perché quando succedono questi fatti sui giornali si viene etichettati come violenti. I cittadini hanno fatto sapere che c’è un altro modo di fare il tifo, anzi può diventare addirittura occasione di festa. Non siamo arrivati a concordare un’azione di riparazione, ma a far giungere a un livello di comprensione delle difficoltà che vivono gli abitanti del quartiere”.
L’intervento della Caritas sulla giustizia riparativa non finisce qui perché si dialoga anche con le comunità parrocchiali per aiutarle ad avere uno sguardo diverso sulle relazioni difficili che si possono creare nella quotidianità. “Abbiamo abbozzato dei percorsi con alcune comunità e siamo in dialogo con un sacerdote di Verona che è uno dei parroci presenti in un quartiere dove l’estate scorsa sono stati arrestati 12 ragazzi tra minorenni e maggiorenni appartenenti ad una baby gang e accusati di aver compiuto rapine, furti e aggressioni. Ora stiamo valutando come l’approccio riparativo possa essere di supporto agli animatori adolescenti e ai catechisti che prestano il loro servizio in questa parrocchia nel lavoro con i ragazzi del quartiere che trovano nelle strutture parrocchiali un importante punto di aggregazione”, conclude Ongaro.