Alberi di nocciolo, querce, aceri; condomini immersi del verde a pochi metri dal Parco Pasolini o dal famoso Arboreto; un foliage variegato e spettacolare tra gli orti delle fattorie didattiche, scuole colorate e murales; prati estesi che circondano il Virgolone di edilizia popolare. Siamo al “villaggio Pilastro”, nel comune di Bologna. Qui su 6mila e 881 abitanti oltre 1.600 sono di origine straniera. E vengono da Marocco, Nigeria, Sri Lanka, Filippine. Oltre il 29% delle famiglie ha un reddito sotto i 12mila euro. Eppure nessuno definirebbe questo un ghetto, tutt’altro.
Rischio gentrification. “Le risorse arrivano e le associazioni di volontariato sono molto diffuse. Le diverse realtà dell’associazionismo collaborano – racconta Francesca Minigher a Popoli e Missione, insegnante alla scuola primaria Romagnoli e Coordinatrice del plesso –. Chi insegna da noi, lo fa per scelta”. Eppure fino a dieci anni fa anche solo nominare questo villaggio povero e malfamato, nato nel 1966 alle porte della città tra il fango e la palude, faceva accapponar la pelle. Il luogo evocava periodi bui della nostra storia. “Tra il 1987 e il 1994 al Pilastro imperversava la banda della Uno Bianca, che commise decine di crimini efferati”, ci ricorda un cittadino bolognese per anni impiegato alla Regione Emilia Romagna. Venne ingaggiata una lotta contro la malavita che aveva forti aderenze con le forze dell’ordine. Poi, la rinascita, la rivalsa, il nuovo corso. Pilastro è letteralmente risorto. Tanto che oggi addirittura rischia la gentrification, come avvenuto per il quartiere Testaccio a Roma, spiega Noemi Piccioli, architetta che ha scelto di vivere qui. “Speriamo che i bolognesi non si accorgano mai della bellezza del Pilastro, altrimenti in pochi anni si trasferiscono tutti qui, facendo lievitare pure i prezzi delle case”, dice sorridendo e ricordando il senso della gentrification dei quartieri popolari a Roma. I servizi pubblici sono tanti al Pilastro e funzionano: la biblioteca comunale Luigi Spina, ad esempio, fa invidia alle migliori ludoteche per bambini del Nord Europa. Le scuole pubbliche Romagnoli sono il fiore all’occhiello dell’intera regione.
Forze che si integrano. Ma come è stato possibile trasformare così una periferia, e chi ha creduto nella sua rinascita? “È una questione di forze che si integrano. Gli insegnanti, per esempio, hanno scelto di trasferirsi qui ed è stata una scelta politica la loro”, afferma Giulia Montanari, mamma di quattro bimbi. Con suo marito Matteo Pisani, Giulia è una missionaria, una capo scout, da anni impegnata nel volontariato. Oggi la coppia è anima della casa famiglia Pamoja, nata nel 2016 grazie a un progetto della Papa Giovanni XXIII sotto gli auspici della diocesi di Bologna.
I bimbi che arrivano da loro, in affido, con situazioni familiari difficili alle spalle, iniziano una nuova vita dentro una famiglia vera, che li ama e li accompagna lungo un percorso di crescita, seguendoli con attenzione. “Siamo stati missionari in Kenya, io e Matteo, poi volevamo partire per la Palestina con Operazione Colomba, ma io rimasi incinta e a quel punto decidemmo di restare a Bologna – ricorda Giulia –. Non avevamo casa e inizialmente ne prendemmo una in affitto”. Poi arrivò l’idea di abitare nell’ex residenza contadina di proprietà del Comune di Bologna, affittata alla Papa Giovanni, lasciata libera dai precedenti volontari che per anni avevano portato avanti un progetto di ospitalità e integrazione. E nel 2016 parte il progetto Pamoja. “Adesso siamo in un momento di relativa calma – dice Giulia ridendo –. Ci godiamo la quiete in otto: con quattro bimbi nostri più due in affido”. In altri periodi, in passato, la famiglia Pisani è stata anche molto allargata, fino a dodici componenti.
Il parroco e i volontari. “I vescovi, primo fra tutti il cardinal Zuppi che ci ama, hanno sempre avuto un’attenzione speciale per questo villaggio che nacque nel 1966. È in quell’anno che nasce anche la comunità parrocchiale – spiega don Marco Grossi, parroco di Santa Caterina e anche di San Donnino –. Tutte le chiese qui all’inizio erano dei prefabbricati e dentro ci si faceva di tutto: dalla messa all’oratorio, dal cinema del pomeriggio alle feste comandate”. La signora Giuliana, una delle volontarie del Centro d’ascolto, nato grazie alla Caritas diocesana, ricorda: “Siamo arrivati qui nel 1962 io e mio marito, lui era poliziotto. Abbiamo fatto la domanda per la casa popolare e ce l’hanno assegnata in via Pirandello. Lui però disse: ‘là non ti ci porterò mai’ per via della pessima nomea del quartiere: c’erano cinque persone condannate per associazione mafiosa, Io però mi sono impuntata per restare qui”. I parrocchiani di vecchia data sono la colonna delle attività missionarie dedicate ai fedeli. la povertà materiale è tanta al Pilastro, ma si riesce ad arginarla: “adesso abbiamo parrocchiani di oltre 45 nazionalità: i bisogni ci sono e c’è tanta povertà ma anche una Caritas che funziona bene”, dice don Marco.
Da alcuni anni “è nato il Centro d’ascolto in parrocchia, con un professore di lettere in pensione, Anselmo Alberti, rimasto vedovo, che ci si è dedicato con amore e ha coinvolto altri due volontari”.
Il valore delle sinergie. “Qui c’è sempre stata una parte di popolazione che, sia dal punto di vista sociale che ecclesiale, ha cooperato per fare comunità ed essere d’aiuto. Per far del bene”, dice il sacerdote. La riuscita di realtà territoriali simili a questa sta nella collaborazione tra amministratori pubblici e realtà del terzo settore; tra impegno della Chiesa e dedizione del volontariato laico e di matrice cristiana. La sinergia è una via di uscita permanente dalle disuguaglianze.
* Popoli e Missione