“Solo attraverso i sacrifici e la tribolazione si educa l’animo alla virtù”. (Fra Pietro Angelerio). Ognuno viene da un’esperienza o da una vita particolare e sceglie il silenzio per esigenze che altri non hanno. Questo lo porta inevitabilmente a darsi una regola di vita che è diversa da quella di un altro. Scriveva Giovanni Crisostomo: “Gesù Cristo non usa né il nome di laico, né quello di monaco. […] è dunque un errore mostruoso credere che il monaco debba condurre una vita più perfetta, mentre gli altri possano fare a meno di preoccuparsene […]. Quelli che vivono nel mondo e i monaci devono arrivare a un’identica perfezione” (Contro gli oppositori della vita monastica 3,14).
In una società dove, volendo citare J.R.R. Tolkien, “ruote di ferro girano ininterrottamente, martelli battono e pennacchi di fumo esalano dalle condutture”, tra le montagne dell’Abruzzo, oggi, come nei secoli passati, l’Abbazia di Santo Spirito a Majella mantiene intatta l’austera essenzialità degli antichi eremi, laddove il tempo sembra essersi fermato. È proprio in luoghi come questi che prendono vita le parole di Gesù: “Se costoro tacessero griderebbero le pietre” (Lc 19, 40). Poter godere di un luogo ideale per vivere la propria spiritualità è il lusso più raro della nostra società contemporanea. Grazie all’assiduo impegno della Cooperativa Ripa Rossa, la quale gestisce il complesso abbaziale dal 2015, è possibile oggi non solo visitare il complesso monastico nella sua maestosità e storia, con l’ausilio di servizi guidati specifici e competenti, ma anche poter fruire del luogo attraverso l’esperienza di un eremo laico, nel quale poter trascorrere del tempo lontano dai rumori della quotidianità. L’attuale foresteria, chiamata la Casa del Principe, è un lascito di Marino IV, duca di Castel di Sangro, Marchese di Bucchianico e appartenuto alla famiglia dei Caracciolo.
L’Abbazia di Santo Spirito a Majella riporta alla luce uno dei più grandi anacoreti abruzzesi: S. Pietro Celestino, al secolo Pietro Angelerio ma conosciuto come Pietro del Morrone, che delle terre abruzzesi ha fatto la sua casa, il suo luogo di ricerca della Verità e di vita comunitaria. Vincenzo Zecca, storico e scrittore nato a Chieti nel 1832, così ci presenta il monachesimo cattolico in terra abruzzese: “Il monachesimo cattolico, antico quasi quanto lo stesso cristianesimo e santo al par di esso, tuttoché avesse avuto talvolta vizi a compiangere e detrattori a combattere, pure ministro benefico di civiltà è stato ognissempre reputato”. L’Abruzzo, terra aspra, difficile, arcigna eppure benedetta. Un massiccio amato dai pastori, dai carbonai e dagli eremiti, la montagna della Majella, è considerata una vera e propria montagna sacra, teatro di storie di vocazioni spirituali molto forti che hanno cambiato il corso della storia della Chiesa stessa. Tra queste personalità Pietro del Morrone sicuramente è tra quelle che maggiormente spicca negli antri della storia.
Egli nacque vicino Isernia nel 1210, da una famiglia di contadini; già giovanissimo entra nel monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli in Campobasso, rendendosi però quasi subito conto di non essere adatto alla vita monastica. Decide pertanto di recarsi a Roma, dal Papa, per chiedergli il permesso di vivere da eremita. Il suo desiderio di assoluto silenzio e meditazione lo portarono in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra il Comune di Sulmona. Nel 1240 si trasferì a Roma, presumibilmente presso il Laterano, dove studiò sino ad essere ordinato sacerdote per poi tornare sul Monte Morrone, in un’altra grotta presso la piccola chiesa di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questo posto per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Majella, in Abruzzo, luogo conosciuto oggi come Eremo/Abbazia di Santo Spirito a Majella, nel Comune di Roccamorice (Pe). È in qui che nel 1244 Pietro del Morrone erige il primo nucleo eremitico di quello che diverrà nel tempo l’Ordine dei Celestini. L’Abbazia, immersa in un contesto paesaggistico e naturalistico unico e situata ad una quota altimetrica di circa 1132 m s.l.m., fu ricavata lungo una parete di roccia calcarea avvolta da una maestosa faggeta, nel cuore dell’Appennino centrale Abruzzese. Vincenzo Zecca sul luogo scrive: “Ghiacci eterni, profonde vallate, cupe caverne, fragorosi torrenti riempiono l’anima di quel mistico terrore che suole richiamarci all’amore del buono: e le immense famiglie degli animali, dè vegetabili e dè minerali fan riguardare i monti siccome il principale teatro della magnificenza del Creatore; confondono il nostro intelletto, e con ineffabile trasporto di ammirazione ci lasciamo sclamare: “Oh come son grandi le tue opere; con quanta sapienza Tu le facesti; come è piena la terra dell’onnipotenza tua”. Appena due anni dopo il suo arrivo venne edificata anche la Chiesa e dedicata allo Spirito Santo, al seguito di una leggendaria visione verificatasi all’alba del 29 agosto del 1248, giorno della Decollazione di Giovanni Battista: una bianca colomba avrebbe lasciato un cartiglio ai piedi di Pietro del Morrone sul quale vi era scritto: “in questo luogo edificherai la Chiesa in onore dello Spirito Santo”.
Fu nel 1264 che Papa Urbano IV, con la bolla Cum sicut, riconobbe la confraternita fondata da Pietro, i Fratelli di Santo Spirito, un ordine legittimo e delegò l’allora vescovo di Chieti Nicola De Fossa, con un breve, a riconoscere tale ordine e ad incorporarlo nell’Ordine dei Benedettini. Il giorno seguente, con la bolla Sacrosancta Romana Ecclesia, il Pontefice concesse alla comunità la protezione apostolica e ne confermò i beni.
Circa dieci anni dopo l’approvazione da parte del Pontefice, e più precisamente nel 1274, Pietro dal Morrone si recò a piedi a Lione, in Francia, dove stavano per iniziare i lavori del Concilio di Lione II, voluto da Gregorio X, per impedire che l’ordine monastico da lui stesso fondato venisse soppresso. La missione ebbe successo poiché grande era la fama di santità che accompagnava il monaco eremita, tanto che il Papa gli chiese di celebrare una messa davanti a tutti i Padri conciliari dicendogli che: “[…] nessuno ne era più degno”. Il 22 marzo del 1275 Papa Gregorio X rilasciò alla comunità un privilegio che sancì il passaggio di quello che era definito l’Ordo Sancti Spiritus de Majella da realtà eremitica a ordine monastico costituente, all’interno del composito ordine Benedettino. Gli anni successivi videro la radicalizzazione della sua vocazione ascetica e il suo distaccarsi sempre di più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio. Tuttavia i monasteri dipendenti da Santo Spirito a Majella si diffusero rapidamente in Abruzzo, Molise e Lazio.
Fu così che nel 1292 alla morte di Papa Niccolò IV, nello stesso mese si riunì il Conclave, in quel momento composto da soli dodici porporati diventati undici per la sopraggiunta morte di un cardinale. La contrapposizione tra i Colonna e gli Orsini paralizzò il Conclave per oltre due anni. La lunga stasi finì con l’elezione a Pontefice di Pietro del Morrone, avvenuta a Perugia il 5 luglio del 1294, un’elezione dovuta alla sua fama di santità, non meno che all’influenza di Carlo II d’Angiò. Al soglio prese il nome di Celestino V, venendo consacrato nella basilica di Santa Maria in Collemaggio il 29 agosto del 1294. Passò alla storia di lì a pochi mesi come il Papa del grande rifiuto: ormai molto anziano, sempre più conscio di essere inadeguato al ruolo perché inesperto di questioni politiche e privo di doti amministrative, il 13 dicembre del 1294 volle abdicare, incoraggiato dall’allora cardinale Benedetto Caetani. Quest’ultimo divenne poi il suo successore col nome di Bonifacio VIII, il quale dapprima lo fece sorvegliare e successivamente, in seguito ad un tentativo di fuga, lo confinò nel castello di Monte Fumone nel Lazio. È in questo luogo che Pietro morì il 19 maggio del 1297.
Alla rinuncia del ministero petrino di Celestino V e agli ingannevoli consigli di Benedetto Caetani che l’avrebbero determinata, allude chiaramente Dante Alighieri nell’Inferno della Divina Commedia: “Colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III 59-60). Dante infatti rimproverava a Celestino di aver favorito, con la sua rinuncia alla dignità pontificia, l’ascesa al Papato dell’odiato Bonifacio VIII, artefice con le sue trame dell’esilio politico di Dante stesso. Di sicuro di tutt’altra visione è Francesco Petrarca, il quale plaude al gesto di Pietro nel De vita solitaria, ritenendo che si dovesse considerare “il suo operato come quello di uno spirito altissimo e libero, che non conosceva imposizioni, di uno spirito veramente divino” oltre che figlio di una corretta valutazione dei propri limiti. Il 5 maggio del 1313, Papa Clemente V canonizzò Celestino V, convinto dalla fama di santità espressa dal popolo.
Tuttavia, nonostante la morte di Celestino, l’ordine da lui fondato continuava ad espandersi e a crescere. Dopo alcuni secoli di abbandono, l’Abbazia di Santo Spirito a Majella vide nuovamente splendore grazie al monaco celestiniano Pietro Santucci da Manfredonia, il quale nel 1586 ottenne da Papa Sisto V il consenso alla riedificazione e all’ampliamento di quello che era stato luogo originario eretto da Pietro del Morrone. Vincenzo Zecca ci da testimonianza di questo scrivendo: “Al volgere del 1586 il Santucci, quando non contava di anni ventiquattro, solo ma guidato dallo Spirito di Dio, ascese le balze del Nicate. Si prostrò riverente su quel suolo ancora improntato di quelle orme del Santo Archimandrita: baciò le reliquie dell’eccelso Santuario, e grazie riferendo a Dio d’averlo ivi condotto per uno scopo si santo, andò tutto in lagrime di tenerezza. Incominciò dal restituire il sacro Tempio al culto Religioso, rimuovendone con grandi sforzi i pastori, che trovò riluttanti a cedere l’ingiusto e profano dritto di occupazione. Si preparò quindi ad opre maggiori con austero regime di vita, consumando i giorni in continua preghiera, e disciplinando crudelmente il suo corpo, cui non accordava altro nudrimento che le erbe fornitegli dalla montagna; altro letto che la nuda terra”.
Grazie, dunque, a Pietro Santucci la realtà di Santo Spirito a Majella ebbe nuova vita: tutto il corpo edilizio fu restaurato ed ampliato con una suddivisione in due piani: nel piano inferiore la Chiesa, il refettorio e i luoghi comuni; nel piano superiore il convento vero e proprio con la clausura e il campanile. Ancora più in alto fu eretto un oratorio dedicato a Maria Maddalena. Fatto questo il luogo fu in poco tempo sede di un gran numero di monaci, diventando così un luogo di pellegrinaggi cristiani. Fu così che nel 1616 l’allora papa Paolo V elevò Santo Spirito a Majella al titolo di Badia con il Santucci primo Abate di Santo Spirito. Grazie a Papa Benedetto XIV nel 1742 Santo Spirito ricevette gli stessi privilegi di Loreto, Montecassino e Subbiaco, ovvero la possibilità del “Perdono”.
Le successive soppressioni napoleoniche del 1807 decretarono uno stato di abbandono generale del luogo, aggravato da un incendio nel 1820. Bisognerà attendere il 1893 quando Domenico Bonfitto di San Marco in Lamis restaurò la chiesa e ripristinò la pratica del Perdono ancora oggi vigente.
L’eremo di Santo Spirito a Majella. Luogo vocazionale di Pietro Celestino
Ognuno viene da un’esperienza o da una vita particolare e sceglie il silenzio per esigenze che altri non hanno. Questo lo porta inevitabilmente a darsi una regola di vita che è diversa da quella di un altro. Scriveva Giovanni Crisostomo: “Gesù Cristo non usa né il nome di laico, né quello di monaco. […] è dunque un errore mostruoso credere che il monaco debba condurre una vita più perfetta, mentre gli altri possano fare a meno di preoccuparsene […]. Quelli che vivono nel mondo e i monaci devono arrivare a un’identica perfezione” (Contro gli oppositori della vita monastica 3,14)