“Una locanda dove ascoltare e accompagnare, dove mostrare il volto limpido della Chiesa madre”. Così don Fortunato Di Noto, responsabile del Centro d’ascolto della Conferenza episcopale siciliana, da trent’anni impegnato nella protezione dei minori con l’associazione Meter che ha fondato, racconta al Sir l’attività dei Centri d’ascolto diocesani. “In questi due anni, nonostante la fatica della pandemia, siamo un segno concreto che ci permette di servire i piccoli”.
Quale percorso avete avviato a livello regionale per la tutela dei minori?
Anzitutto, la costituzione ufficiale per ogni diocesi con tutti gli atti formali necessari che ogni vescovo doveva fare. La costituzione del Servizio diocesano per la tutela minori ci ha portato poi automaticamente a incontrare anche un primo step di formazione. Certamente con la pandemia ci siamo obbligati a farla online. A seguire, abbiamo sollecitato la costituzione del Centro di ascolto, che è veramente una “locanda”. Poi, ogni diocesi ha avviato gli incontri formativi al clero, ai seminaristi, alle famiglie. Abbiamo partecipato, quindi, alla Giornata nazionale di preghiera indetta dalla Cei.
Che cosa emerge da questa esperienza?
L’esperienza vede una propensione spirituale a far sì che la Chiesa locale dia attenzione all’infanzia. Una consapevolezza che da soli non si esce fuori da questa piaga globale. Si è trattato qualche caso in maniera riservata, con intelligenza, con tatto. Ci aspettavamo molte più segnalazioni che non sono arrivate, ma ci siamo riconosciuti come punto di riferimento.
Come strutturate il Servizio di tutela dei minori?
Le situazioni che sono state trattate risalgono a diversi anni fa. Il Centro d’ascolto non fa altro che raccogliere, attraverso tutto il protocollo che si adotta, ascoltare il racconto doloroso delle presunte vittime, far sentire una Chiesa Madre che accoglie con tenerezza e delicatezza. Poi, tutto questo passa automaticamente al vescovo che fa l’indagine previa, se è coinvolto un chierico. Ma ciò non significa che la persona che si è rivolta al Centro d’ascolto venga abbandonata. Anzi, tutt’altro. Viene accompagnata, sostenuta. Anche chi ascolta non deve essere un improvvisato ma un uomo con una grande maturità umana e professionale. Cerchiamo di creare un legame. A volte queste persone, che ci raccontano di avere subito abusi, vogliono solo essere ascoltate, accolte e illuminate. Dobbiamo sempre tenere conto che, se sono fatti del passato, le ferite ancora aperte devono essere trattate diversamente da quello che può accadere nell’immediatezza dei fatti.
Perché considerate il Centro d’ascolto una “locanda”?
Noi dobbiamo avere una propensione a creare luoghi in cui la gente che è ferita o ha subìto sulla fragilità la pesantezza del male possa trovare una comunità che si faccia carico di questa situazione. La locanda è tale perché la immagino sempre piena di calore, pulizia e accoglienza, di rispetto e di silenzio. Anche se ci sono diversi tavoli, sono tavoli comunitari. La locanda è il luogo dove il dolore è condiviso, come la sofferenza. La locanda è un “ospedale da campo”, nell’emergenza. Quando lo si faceva in una guerra – perché l’abuso è una guerra -, presentava questo senso profondo dell’accoglienza e della cura. In quel momento si può salvare una persona.
Che cosa porta in questo servizio dall’esperienza di Meter?
Con Meter ci portiamo dietro un bagaglio enorme di trent’anni. Meter è diventato anche un modello. La struttura di questi sportelli diocesani è un modello che consegnai 18 anni fa, proprio alla luce di quell’esperienza. Ci sono rischi da evitare, anzitutto quello della frammentarietà. Poi, l’importanza di rendere una pastorale ordinaria, non dell’emergenza. E, infine, la burocratizzazione. Noi dobbiamo fare vedere il volto bello, generoso e pulito di una madre, la Chiesa, che ama fino in fondo i suoi figli. C’è ancora una modulazione dei servizi che si può affinare e occorre puntare sulla qualificazione dei servizi offerti. A volte è necessario avere a disposizione volontari professionisti. Non tutti possono fare tutto.