Da una dozzina d’anni il mottense Mario Po’ segue le vicende e la realtà quotidiana del popolo ucraino. Un’attenzione che non si è interrotta dopo l’invasione da parte dell’esercito russo. L’ultimo viaggio Mario Po’ l’ha intrapreso qualche settimana fa, la sera di Pasqua, transitando per l’Ungheria, viaggiando da solo con Flixbus e con i bus ucraini, visitando alcune località dell’oblast transcarpatico, proseguendo verso nord, giungendo nella Galizia ucraina poi a Leopoli; facendo poi ritorno attraverso la Polonia e l’Austria.
Come è nato questo legame, questa frequentazione con l’Ucraina?
Nel 2010 è arrivato in santuario a Motta di Livenza padre Benedikt Sviderskij, frate ucraino che studiava ecumenismo a Venezia, con cui abbiamo subito fraternizzato, anche perché ho sempre considerato interessante umanamente e culturalmente il mondo europeo orientale. Avevo già letto molto sulla realtà slava e visitato grandi Paesi come la Russia, la Serbia, la Bielorussia, ma conoscevo poco l’Ucraina. Per la verità credo che fino a due mesi fa gran parte degli italiani non sapessero collocare geograficamente l’Ucraina.Con padre Benedikt ho avuto il privilegio di conoscere l’Ucraina, anche attraverso la memoria delle persecuzioni subite dai cattolici durante il comunismo sovietico e attraverso le criticità del post-comunismo. Ricordo che nel primo viaggio mi mostrò che sotto il pavimento della chiesa di Husyatin c’erano ancora i resti umani dei cattolici fucilati o sepolti vivi dai comunisti. Quel viaggio si aprì anche ad una prospettiva di speranza, perché poi mi fece conoscere il villaggio di Ulianivka, sperduto nella vastità della pianura ucraina, che mi è rimasto nel cuore. Era il giorno di sant’Antonio; una minuscola casetta di legno conteneva un mucchio gente in ginocchio che pregava a mezzogiorno. Era la loro chiesa. Ho pensato alle nostre grandi chiese vuote e mi sono vergognato.
Una scossa forte, quindi?
Molto forte, ma così è iniziato un articolato progetto di aiuto alla comunità cattolica di rito latino, coordinato da padre Benedikt. Prima cento letti, cento materassi e cento comodini per un loro ospedale; poi una bella chiesa in muratura a Ulianivka; la sistemazione delle aule del catechismo nel convento di Zhitomyr saccheggiato dall’Armata rossa; la ricostruzione dell’altare demolito dai sovietici a Baranivka; la realizzazione delle cinque campane già fuse dai sovietici a Zhitomyr; le nuove finestre di un vicino monastero di benedettine di clausura; un nuovo edificio nel bosco per il camposcuola estivo dei bambini e altro ancora, coniugando sempre fede, formazione religiosa, primarie necessità umane.
Si sente parlare spesso dei legami storici forti tra Russia e Ucraina. Lei quale idea si è fatto al riguardo?
Da questa mia conoscenza dell’Ucraina dall’interno ho tratto presto la convinzione che è vero che Russia e Ucraina hanno la loro storia nella Rus’ di Kiev, ma è altrettanto vero che un abisso ormai le separa. Restano vicine, ma un terremoto politico ha creato una faglia profonda tra di loro. Questo terremoto sono i settant’anni di comunismo che ha congelato violentemente i problemi territoriali, economici, sociali e persino ecclesiali e la ricerca delle soluzioni. Si parla poco in Italia di questa tremenda parentesi, non riuscendo a capire pertanto i fatti di oggi. La gente in Ucraina, invece, ne parla sempre.
Ci faccia degli esempi.
Per gli ucraini l’invasione russa non è stata una sorpresa. Padre Benedikt me ne parlava a luglio dello scorso anno come di un evento molto probabile, non credendo a quanto io gli riferivo sulle analisi degli esperti italiani, che oggi definiscono Putin un matto per giustificare la loro incapacità di analisi. Invece, gli ucraini definiscono Putin in altro modo e, comunque, è il loro nemico strategico.
Noi non riusciamo a capire il nazionalismo ucraino, che consideriamo una forma di fascismo. Ma dopo una visita a Kiev al mausoleo dell’Olocausto ucraino – quello della carestia pianificata da Stalin per “domare” l’Ucraina, che provocò milioni di morti –, possiamo comprendere meglio il significato di nazione e patria, che da noi è piuttosto frainteso. Credo che se l’Ucraina entrerà nell’Unione europea ci aiuterà a capire che l’appartenenza alla propria patria non contraddice l’europeismo.
Nel suo recente viaggio cosa l’ha colpita?
Ho visto in vari luoghi il ritorno a casa di giovani soldati morti al fronte. L’accoglienza nelle strade era quasi di festa e i funerali erano, direi, composti; nessuno piangeva, perché ogni soldato morto è un eroe. La famiglia si consola così.
Tutto il Paese è militarizzato; nel senso che tutta la società ucraina è, direttamente o indirettamente, al fronte.
Quale situazione religiosa ha trovato?
Anche le parrocchie sono partecipi di questa tragedia: nelle chiese di rito latino, ad esempio, sfidando il coprifuoco notturno si fa spesso l’adorazione eucaristica fino alle 6 del mattino, così la gente sta in chiesa tutta la notte; i bambini mandano le loro preghiere ai giovani parrocchiani al fronte; si fa di tutto per mantenere le cadenze della prima comunione, della festa del santo patrono, degli incontri pastorali per le coppie, anche se sono rimaste solo le donne. La gente si confessa e si comunica molto di più e i fedeli sono aumentati nelle parrocchie dell’ovest per la presenza degli sfollati da Kiev. A Sharhorod, ove è parroco padre Benedikt, su una popolazione di fedeli di duemila persone, la Messa domenicale dei bambini di solito ha circa 350-400 ragazzi presenti. I vescovi di rito latino hanno autorizzato i parroci a confessare gli uomini che vanno in guerra anche per i peccati non remissibili ordinariamente, ma soltanto per una volta.
Ho visitato il monastero benedettino di Leopoli, dove la giovanissima badessa madre Klara ha revocato la clausura per accogliere oltre cento profughi, mamme e bambini. Le monache sono contente che la sala del capitolo sia diventata una sala giochi e la biblioteca una stireria.Sulla situazione ecclesiale ucraina, in Italia c’è scarsa informazione: ad esempio, pochi sanno che i cattolici che hanno il nostro rito latino sono oltre due milioni; dovremmo sostenere di più la Chiesa cattolica latina ucraina, che è vista male perché fedele al Papa e liturgicamente polacca-occidentale.
In Ucraina la gente comune come sta vivendo questa guerra?
Credo che la parola giusta per definire l’atteggiamento della gente ucraina sia serietà. A Mukacevo una bambina per la strada mi ha chiesto, con serietà, se acquistavo le bamboline fatte da lei per sostenere l’Ucraina: tutti hanno un compito, anche i bambini sono consapevoli che vivono la storia.
Lungo le strade ci sono grandi poster del governo che sostengono psicologicamente la popolazione con vari slogan. Uno di questi diceva: “Il Signore salverà l’Ucraina come l’Ucraina guarirà l’Europa”.
Tutti i ponti sono minati e presidiati, anche nelle strade di campagna ci sono i check point, le sirene degli allarmi aerei suonano ovunque, di notte e di giorno, e bisogna andare nei rifugi, come ho dovuto fare anch’io ripetutamente. Alcuni villaggi sono troppo poveri per permettersi una sirena, così con i rifugi antiaerei si arrangiano come possono; a volte però arrivano troppo tardi.
Ha incontrato altri occidentali in Ucraina?
Nel mio viaggio ho visto solo mamme che cercavano i loro figli o mamme incinte in fuga; alle frontiere ungherese e polacca, nelle città e nei paesi, nelle chiese non ho incontrato altri stranieri come me. Non ho incrociato né esperti, giornalisti, politici o studiosi. Ho visto soltanto ucraini lasciati al loro destino di salvare la loro nazione e di fare da guardiani del nostro Occidente ipocrita, dissoluto e senza identità.Io credo molto alla visione di Giovanni Paolo II dell’Europa che respira con i due polmoni dell’Est e dell’Ovest; invece questa guerra mostra con infinita tristezza la dissoluzione culturale della vera Europa, quella che comprende Dostoevskij, Gogol, Manzoni, Proust, Cervantes, ma anche la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica. Eppure gli ucraini con orgoglio dicono che il centro geografico dell’Europa è proprio nel loro Paese, in una località dei Carpazi centrali, tra gli Urali russi e l’Atlantico. Forse confidando in questa “geografia della speranza” non tutto è perduto.
(Pubblicato sul settimanale diocesano “L’Azione”)