Cinquantuno anni, da 17 sacerdote, dopo una laurea in Pedagogia, parroco a Pachino, provincia di Siracusa e diocesi di Noto, delle chiese San Francesco di Assisi e Sacro Cuore. È l’identikit, quasi completo, di don Matteo Buggea, perché il sacerdote è non vedente dalla nascita. Ma quello che a primo acchito potrebbe sembrare un limite, don Matteo lo ha trasformato in un’opportunità, con la sua capacità di ascoltare e la particolare attenzione verso le fragilità.
Don Matteo, ci racconti di lei.
Sono nato a Pachino, nel 1970, e sono stato ordinato il 31 luglio 2004: una vocazione adulta, maturata lentamente nel discernimento. Dopo i venti anni cominciavo a interrogarmi mentre completavo gli studi di Pedagogia all’Università e contemporaneamente studiavo Scienze religiose, attratto dalla Teologia. Da bambino, ho iniziato i miei studi in collegio, un’esperienza che segna, sentivo la mancanza di mia madre. Fino alla terza elementare ho frequentato le scuole speciali per ciechi, poi ho avuto l’occasione di tornare a casa dai miei genitori e mi sono inserito nelle scuole pubbliche, anche lì con qualche difficoltà nel farmi accettare, riconoscere e avere i miei spazi, ma ci sono riuscito, con l’aiuto di un Dio che mi è sempre stato vicino anche quando io ho avuto qualche dubbio durante l’adolescenza. Dopo la cresima per un paio di anni mi sono un po’ allontanato dalla Chiesa. Poi, a 16 anni un sacerdote salesiano mi ha coinvolto in un movimento giovanile, mi ha dato fiducia e ho capito che, piuttosto che essere io oggetto di attenzioni e di cure, potevo avere dei talenti, dei doni da mettere a disposizione degli altri. Senza perdere la consapevolezza di essere bisognoso, in una reciprocità tra il dare e il ricevere, ho cercato di andare sempre avanti. Dopo il diploma al liceo, ho frequentato l’Università e mi sono laureato. Prima di entrare in Seminario a 29 anni, mi sono interrogato a lungo sulla possibilità che un non vedente potesse fare questa scelta. Ho studiato un po’ il Codice di diritto canonico e ho capito che la responsabilità era del vescovo. Ed è stato proprio il vescovo che vedendo i segni di una chiamata mi ha voluto accogliere, ho cominciato così un cammino, aiutato anche da un bravo padre spirituale. Inviato in una parrocchia a fare esperienza, dopo l’ordinazione sacerdotale vi sono restato prima come viceparroco e poi come parroco.
Essere non vedente cosa comporta per il suo ministero?
Ognuno di noi è portatore di doni ed è mancante di qualcosa, nessuno è così completo da non dover dire mai: “Ho bisogno di te, di voi”. E nessuno è così vuoto da dire: “Non ho nulla da darti, sono completamente a mani vuote”. È chiaro che ogni persona porta dei tratti propri, i miei mi condizionano nel servizio del mio ministero. Sono parroco non da solo, in un contesto di fraternità organizzo la pastorale con altri sacerdoti e diaconi permanenti. Non organizzerò campionati di calcio, né mi occuperò di oratorio direttamente, ma comprendo che la possibilità di star fermo e ascoltare, di avere un’attenzione particolare nei confronti delle persone fragili, delle povertà, è un dono. L’apostolo Paolo usa un’espressione: “Ciò che pensavo fosse una perdita invece può essere considerato un guadagno”.
L’opportunità di conoscere meglio Gesù nelle mie condizioni ha avuto una risonanza speciale: ho trovato una via buona, bella, valorizzando il limite e lavorando per superare il limite.
Magari ci sono tempi di stress, di pigrizia, però tante volte scopro di fare cose che non pensavo possibile il giorno prima. Quando c’è l’ostacolo porto il cuore e la mente oltre di esso per superarlo. Talvolta, ho dei rimpianti. Mi trovo dentro l’auto e penso: “Potessi guidarla io, potessi essere autonomo”; invece c’è chi mi deve accompagnare. Ma questo mi dà l’occasione di sperimentare la bellezza di appoggiarsi all’altro, la bellezza del sentirti bisognoso. Penso che il non vedere mi abbia dato tante opportunità nel vivere il sacerdozio così. Noi siamo impastati come il Signore ci ha voluto: e la limitazione deve essere quanto più possibile tradotta in opportunità. La mia patologia agli occhi lo è diventata. Il mondo di oggi tra i cinque sensi privilegia l’occhio, a scapito degli altri. Nel momento in cui ti manca la vista, invece, devi potenziare gli altri quattro. Esiste una pastorale che si può vivere a livello di olfatto? Sì, Papa Francesco parla dell’odore delle pecore, vuol dire che devi annusare, sentire questo odore. Esiste una pastorale dell’udito? Certo, iniziamo il cammino sinodale, siamo in una fase di ascolto e quindi dobbiamo usare di più le orecchie che gli occhi. Esiste una pastorale del gusto? Il Signore ci dà il pane suo da mangiare, la convivialità. Esiste una pastorale del tatto? Molto sacrificata nel tempo del Covid, ma quanto è bello toccare delle mani o appoggiare una mano su un viso dove ci sono lacrime che sgorgano. In 17 anni quante esperienze così mi sono capitate.
Com’è il suo rapporto con i parrocchiani?
Mi riesce meglio ascoltare, stare vicino agli altri, ma i rapporti li crea il Signore, ne sono sempre più convinto. In Seminario avevo come rettore l’attuale vescovo di Piazza Armerina, mons. Rosario Gisana, e come vice rettore mons. Corrado Lorefice, oggi arcivescovo di Palermo: mi sento figlio loro che di me si sono fidati. Mons. Gisana diceva sempre: “Entri in Seminario pensando di voler fare il prete in un determinato modo, ma se rimani e diventi prete è perché il Signore vuole di te un sacerdote come lo desidera Lui”. Dico questo perché, venendo dalla realtà di un movimento giovanile, mi aspettavo di essere un prete per i giovani. In parrocchia non ne ho trovati, quindi ho cominciato con gli ammalati, gli anziani, gli adulti. C’erano anche alcuni ragazzi che sono cresciuti bene: tra loro ci sono due giovani sacerdoti, don Marco e don Carmelo, ordinati nel 2021. Dunque, la parrocchia, pur avendo pochi giovani, ha partorito segni belli di chiamata del Signore e ognuno di noi ha messo la sua parte. La nostra parrocchia è una piccola realtà, ma con delle sensibilità particolari circa la disabilità. Grazie al mio predecessore è stato creato il Centro diurno Agape per disabili che man mano è maturato verso l’idea di un dopo di noi. Ora esiste un modulo abitativo pronto ed è abitato da tre persone con disabilità fisiche e psichiche. Stiamo vivendo questa esperienza bella, coinvolgente. Possiamo accogliere al momento fino a 7 persone, se poi costruiremo anche i piani superiori possono essercene 7 a piano. La struttura è dentro il recinto della parrocchia del Sacro Cuore, che è titolare dei locali. Ci sono educatori e volontari, si è realizzata una cooperativa per il servizio, io faccio l’assistente spirituale.
Cerchiamo di favorire l’inclusione nella vita della chiesa, anche nelle liturgie. Quando la mensa si apparecchia, il Padre vuole che tutti i figli possano partecipare e nessuno sia escluso.
Infatti, il Signore ha scelto tutti noi come suoi amici. Ora che è iniziato il cammino sinodale, auspico che sia un tempo di ascolto proprio di tutti, perché lo Spirito soffia attraverso di tutti, per una Chiesa che sappia rinnovarsi.