Preoccupa l’escalation criminale che sta infiammando Napoli, in particolare Ponticelli, nella zona Est, dove, di recente, una deflagrazione ha distrutto delle auto in sosta e danneggiato alcuni edifici e, precedentemente, in un agguato è stato ucciso un 30enne e ferito un 24enne. Prosegue, intanto, nel capoluogo partenopeo, la rimozione da parte degli operatori dell’amministrazione comunale, assistiti dalle Forze dell’ordine, di murales e altarini, dedicati ai “caduti” dei clan durante gesta criminali o in conflitti tra cosche, mentre continua a diffondersi il fenomeno di giovani criminali che diventano influencer attraverso i social. Domenica 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, Papa Francesco, dopo l’Angelus, ha ricordato: “Le mafie sono presenti in varie parti del mondo e, sfruttando la pandemia, si stanno arricchendo con la corruzione. San Giovanni Paolo II denunciò la loro ‘cultura di morte’ e Benedetto XVI le condannò come ‘strade di morte’. Queste strutture di peccato, strutture mafiose, contrarie al Vangelo di Cristo, scambiano la fede con l’idolatria. Oggi facciamo memoria di tutte le vittime e rinnoviamo il nostro impegno contro le mafie”. Di tutto questo parliamo con don Tonino Palmese, vicario del settore Carità e Giustizia dell’arcidiocesi di Napoli.
Preoccupa l’escalation criminale a Ponticelli?
Quello che sta accadendo in quel quartiere non è altro che l’“icona” di quello che è il territorio: Ponticelli è un luogo che nasce come realtà operaia, poi negli anni Settanta e in particolare negli anni Ottanta si trasforma sempre più in una realtà ghetto. Oggi, nel quartiere dove c’è una grande realtà come la Whirpool che sta chiudendo, sul silenzio di quella fabbrica prende il sopravvento il rumore degli spari. Non sono causa ed effetto la chiusura e l’escalation criminale, ma è un territorio dove
aumenterà sempre più il rumore delle pistole se non ci sarà più la possibilità di lavorare in un’azienda grande come la Whirpool.
Oltre Ponticelli, come sta vivendo questo momento di pandemia la criminalità organizzata?
La camorra in questo momento vive in un’agitazione fortissima. Mi dicono gli osservatori privilegiati, come l’Arma dei carabinieri, la Polizia o anche le persone che vivono in quei quartieri dove il volto della criminalità è una maschera che non scompare mai, che i clan stanno un po’ “come i pazzi”, come si dice a Napoli, perché cercano di capire come riconvertire la loro presenza sul territorio, quando arriveranno i soldi dall’Europa ma anche dalla ripresa dell’economia.
C’è la lotta tra i clan anche per questo?
Certo, adesso sono più cani sciolti, che dovranno dimostrare di essere capaci di prendere loro il sopravvento in un quartiere a scapito di quelli che già c’erano o di quelli che vogliono affermarsi. Da un lato, quindi, abbiamo un’occasione di prepotenza realizzata. Dall’altro, se vogliamo bonificare un territorio, credo che la soluzione sia sempre la stessa: non basta mettere in galera i delinquenti, anche se ce ne sono abbastanza, ma serve innanzitutto creare lavoro. Se al mattino va a lavorare, raramente la gente, tra “la morte della criminalità” e “la vita del lavoro”, sceglie la prima. Non solo:
quando arriveranno soldi come investimento per il lavoro, sarebbe interessante anche recuperare una “certa bellezza del territorio”.
Non mi riferisco tanto a mettere i fiorellini lungo le strade ma a riorganizzare i luoghi di vita dove le persone, che stanno insieme senza delinquere, possono stare bene perché il luogo è sicuro ed essendo sicuro diventa anche bello. Ed essendo bello diventa anche sicuro, creando un circolo virtuoso. È molto umiliante anche che le persone vengano da noi sacerdoti per un posto di lavoro: anche a me succede, avendo la rettoria della storica chiesa dei Pellegrini, perché immaginano che, essendo io un uomo di “potere religioso”, possa anche bussare alle porte giuste per evitare che loro bussino a quelle sbagliate della camorra. Per me è una duplice frustrazione: la prima è la pietà verso questa povera gente disperata; la seconda deriva dalla considerazione che nell’immaginario collettivo si affermi l’idea che, grazie a un certo potere come quello della Chiesa, io possa incidere su certe persone determinando una preferenza per un lavoro a vantaggio di uno a scapito di un altro, insomma due ingiustizie messe insieme. La gente è così distratta dalla propria disperazione che in chiesa non mi chiede Dio ma di uscire da questa disperazione che è una cosa lecita, ovvia, ma terribile e frustrante per entrambi: c’è il rischio che loro si perdano Dio e io mi perda l’occasione di costruire una comunità di fratelli.
C’è anche un ruolo educativo della Chiesa?
Certo, c’è nella misura in cui noi dimostriamo che possiamo aiutare le persone a mettersi insieme in vista di una possibilità lavorativa ma non andando a bussare alle porte dei potenti. Esempi positivi ci sono, come è accaduto nel Rione Sanità o in alcuni spazi educativi dai Salesiani al Don Bosco, con il tentativo di costituire luoghi dove la dimensione cooperativistica, per motivi museali o pedagogici, diventa una risorsa di vita.
A Napoli si sta procedendo a rimuovere altarini e murales dedicati a giovani criminali morti.
Ce ne sono tantissimi, il censimento lo avremo solo alla fine se saranno tutti dismessi. Ogni giorno se ne scoprono nuovi. Io non appartengo a nessun partito a favore o contro la rimozione: la mia unica preoccupazione non è quella di toglierli come omaggio che chiedo alla mia moralità o alla mia visione di mondo ma per quello che questi murales e altarini rappresentano per certi ragazzi, non i figli della borghesia e del benessere, ma i figli di quelli che sono già dentro in galera e che vorrebbero diventare come i loro padri. Per questi ragazzi – e lo so perché quando li incontro nell’istituto penale minorile di Nisida me lo raccontano – i giovani, uccisi nel compiere un delitto o in qualche conflitto e ricordati con murales e altarini, sono eroi.
Ci sono opinioni contrastanti per il murales dedicato a Ugo Russo, il ragazzo ucciso da un carabiniere mentre il primo tentava di rubare un orologio al secondo.
Ci auguriamo che presto la giustizia dica una parola su quello che è accaduto, ma il ragazzo al carabiniere non ha detto una parola offensiva, ha cercato di strappargli l’orologio che aveva sul polso. Allora, dobbiamo fare un distinguo: il ragazzo ucciso è la sconfitta di tutti noi, ma che diventi un eroe agli occhi di altri ragazzi, che si farebbero uccidere allo stesso modo, questo è un pericolo che dobbiamo evitare. Dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose per nome: è stato ucciso non perché si è trovato per caso in una vicenda conflittuale ma perché voleva rubare. Certo, non si deve essere uccisi per un orologio, ma neanche si deve rubare.
I giovani criminali che diventano influencer è un fenomeno nuovo?
Non credo. Hanno imparato questo modo di agire anche grazie alla involontaria scelta di “Gomorra”, che di fatto ha sortito questo effetto. C’è tutta una tipologia giovanile che guarda il crimine con una certa simpatia, un certo entusiasmo e una certa ammirazione. Alla base c’è il bisogno di arricchimento facile e veloce e di esercitare un potere sul territorio solo perché si appartiene a un certo clan e si hanno la pistola e il coltello. Tutta questa popolazione si aspetta che qualcuno dica: “State dalla parte giusta, facciamo questo”.
Come frenare il fenomeno?
Quanto più le agenzie educative fanno alleanza, tanto più potremmo sperare in un mondo diverso.
Quando parlo di agenzie educative voglio dire tutte, anche quelle che per amore di verità pretendono di far vedere tutto e di dire tutto, invece, poi, determinano una sofferenza nella mente delle persone. Io capisco che sia vietato censurare programmi che parlano di cose che accadono, ma è anche vero che noi non riusciamo a trovare il tempo necessario per fermarci a destrutturare quelle immagini e analizzarle per quelle che sono. Se tu destrutturassi quelle immagini e analizzassi ciascuna di esse vedresti che non sono portatrici di un valore ultimo come la giustizia e la vita, ma che sono fini a se stesse, che il valore è quello rappresentato nel gesto dell’uccisione, della morte, della sopraffazione. Il ragazzo, che non ha altre prospettive né altri strumenti culturali per discernere, purtroppo, le guarderà con ammirazione.
Le parole del Papa per la Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime delle mafie in questo contesto cosa possono dire?
Credo che quelle del Papa siano le parole di un magistero di Chiesa che da Giovanni Paolo II in poi non ha esitato più a chiamare per nome i problemi, ad avere il coraggio del respingimento di alcune ideologie violente come quelle della criminalità organizzata e, infine, a recuperare, in una tradizione che è sacra nella Chiesa cattolica, il ricordo dei defunti facendo diventare questo ricordo un’occasione propizia per capire da dove veniamo e dove andiamo a finire se non rispettiamo quelle memorie.