Trent’anni fa gli sbarchi in Salento. Quei migranti riconosciuti e accolti come fratelli

Trent’anni fa, nel Salento, una gara di solidarietà che resta nella memoria identitaria di questa terra. Sino al ’91 a sbarcare, di notte e di nascosto, erano soltanto i contrabbandieri. Quasi sempre italiani che trafficavano con le sigarette. E non venivano mai dall’Albania, che era uno Stato impenetrabile. Poi, improvvisamente, giunse qualche barca malandata, carica di persone prive di tutto. Nei primi giorni di marzo fu come un’improvvisa esplosione: approdavano dappertutto lungo tutta la costa, con vecchi pescherecci o piccole navi in disarmo, da abbandonare dopo l’arrivo. Piene all’inverosimile

(Foto ANSA/SIR)

Sino al ’91 a sbarcare su queste coste, di notte e di nascosto, erano soltanto i contrabbandieri. Quasi sempre italiani che trafficavano con le sigarette. E non venivano mai dall’Albania, che era uno Stato impenetrabile. Poi, improvvisamente, giunse qualche barca malandata, carica di persone prive di tutto.
Ci si rese subito conto che si trattava di fuggiaschi che scappavano da una società in disfacimento. Si capì che erano disperati in cerca di fortuna. Avevano bisogno di tutto e guardavano con occhi stupiti e rispettosi. Non chiedevano niente, eppure avevano bisogno di tutto. Molti riuscivano a dire qualche parola in italiano. Conoscevano i nomi dei calciatori e delle squadre di calcio. Sapevano dire “Vecchia Romagna etichetta nera”, ma erano soltanto incuriositi dal caminetto acceso nell’angolo di una casa accogliente. Sì, perché in Albania, di nascosto dal regime, vedevano la televisione italiana. Si affollavano attorno ai pochi televisori disponibili e con occhi sognanti raccoglievano e sintetizzavano l’intero Occidente negli spot pubblicitari trasmessi dalla televisione italiana, l’unica che si potesse ricevere al di là del Canale d’Otranto.
Nei primi giorni di marzo fu come un’improvvisa esplosione: approdavano dappertutto lungo tutta la costa, con vecchi pescherecci o piccole navi in disarmo, da abbandonare dopo l’arrivo. Piene all’inverosimile. E con un gran numero di giovani, anche giovanissimi, persino ragazzi, spinti all’imbarco da genitori che osavano sperare in un futuro dignitoso per i loro figlioli.
Nella settimana fra il 3 e il 9 marzo di quell’anno, in provincia di Lecce si contarono 900 minori non accompagnati. Un problema nel problema. Lo Stato faceva fatica a trovare ricoveri e luoghi di accoglienza. Mancavano le direttive. Nessuno sapeva che cosa fare. I Salentini, invece, capirono ed agirono. L’Episcopato salentino inventò – già allora – la Chiesa in uscita e la mise in atto. In una sola serata il Tribunale dei minori affidò circa 500 minori ad una sola persona: mons. Cosmo Francesco Ruppi, arcivescovo di Lecce. E dalla redazione de L’Ora del Salento partì un tam tam che in tanti ripresero ed amplificarono. In pochi giorni i minori riuscirono a trovare una casa o un istituto, e comunque un letto, un pasto caldo, una comunità di accoglienza.
E quando una nave ancora più grande riversò sulla banchina del porto di Brindisi una fiumana di persone infreddolite, coperte a malapena da un grande foglio di plastica tirato fuori da un privato, nel gesto disperato di proteggere dalla pioggia, allora partì la famosa telefonata dell’arcivescovo, mons. Settimio Todisco al prefetto di Brindisi: “O trova lei la soluzione, o io apro la cattedrale ed ospito tutti in chiesa. Questa gente non può rimanere qui”.

Fu uno slancio di solidarietà corale, che coinvolse tutti.

Come dimenticare l’invito del parroco don Michele Gentile, dei Salesiani, durante l’Omelia della domenica: “Vi prego cari fratelli, non portateci più generi alimentari: abbiamo i depositi intasati e i frigoriferi stracolmi. Piuttosto fateci avere saponi, pannolini, indumenti per bambini piccoli. Aiutateci dandoci una mano. Grazie”.
Mons. Ruppi raccomandò ai suoi collaboratori: “rendetevi conto che arriveranno anche stasera e poi domani sera e poi ancora. Andateli ad aspettare lungo le spiagge”.

E un funzionario della Prefettura scrutava continuamente il cielo: stasera tira troppo vento – diceva – forse possiamo andare a dormire, con questo vento è difficile che possano sbarcare.
Fu un momento straordinario, che si prolungò nel tempo. Molti volontari scoprirono nuovi bisogni e impararono sul campo a dare le dovute risposte. Qual era il bisogno più urgente dei migranti? Non chiedevano né scarpe né vestiti e neppure cibo e bevande; desideravano invece comunicare con le famiglie rimaste in Albania o con i parenti che potevano essere in Italia, ma chissà dove. Si riuscì a riunire tantissime famiglie, con sforzi inenarrabili. Nella concitazione dello sbarco e dei soccorsi, era accaduto di tutto: ed era grande la disperazione di chi non sapeva dove fosse il figlio, il marito, il parente, la mamma o il papà con cui aveva compiuto la traversata del Canale d’Otranto.
Si organizzò l’accesso alla scuola e si offrirono servizi educativi integrativi, si riuscì ad inserire nel mondo del lavoro…  Si fecero grandi cose.
Quei migranti sono oggi cittadini pienamente integrati nella società civile italiana, talvolta con ruoli di rilievo; molti hanno studiato, qualcuno si è laureato. Alcuni sono tornati in Albania.Oggi alcuni Italiani vanno a lavorare in Albania e fra le due sponde dell’Adriatico c’è uno scambio fraterno. I migranti del marzo del 1991 hanno segnato un’esperienza più unica che rara. E la comunità salentina ha dimostrato che la via della integrazione e della pacifica convivenza è possibile. Il segreto? Riconoscersi fratelli ed agire con massima lealtà. Se questo è accaduto, significa che è possibile. Ed allora giova farne memoria, per proseguire con fiducia e speranza.

 

(*)Pubblicato su Portalecce.it

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