“L’altra notte alle 2:30 un paziente aveva paura di essere intubato. Mi ha chiesto di rimanere con lui fino a quel momento e ci sono stato. E’ importante esserci, entrare nel dolore e nella paura dei malati e prendersene cura con amore”. Don Paolo Mulas, 33 anni, da quasi tre è il cappellano dell’Azienda ospedaliera universitaria (Aou) di Sassari e ci racconta l’inizio di un Avvento diverso dagli altri in questa seconda ondata della pandemia.
“E’ importante esserci – sottolinea -: sia per i pazienti sia per gli operatori sanitari”. Anche per questi ultimi perché don Paolo, a differenza della scorsa primavera, ora avverte in loro un senso di scoraggiamento: “E’ peggio ora che in a marzo: la situazione allora, per quanto seria, era abbastanza gestibile; oggi invece abbiamo oltre 150 positivi ricoverati”. Inoltre, “quando arrivano in reparto i pazienti sono molto provati. Rispetto alla prima ondata hanno una maggiore consapevolezza della malattia, e molta paura della solitudine e delle morte.
E’ come se si sentissero soffocare da un cerchio che si stringe sempre più intorno a loro”.
Ma anche “il personale è al limite, soprattutto nelle terapie intensive. Inoltre, secondo don Paolo, medici e infermieri avvertono venuta meno la solidarietà da parte dell’opinione pubblica: “Gli operatori sanitari hanno bisogno di sentirsi appoggiati e sostenuti; non si sentono eroi ma professionisti che fanno con impegno e dedizione il loro lavoro. Percepisco che non avvertono più il riconoscimento da parte della gente che li ha sostenuti nei mesi scorsi”. E così si dedica anche a loro: “Mi cercano per parlare. Tutti i giorni faccio con loro sei-sette colloqui”.
“Come prete, non c’è un posto migliore dove vorrei essere ora”,
dice sentendosi parte dell’équipe: “Stiamo approfondendo insieme il percorso dal concetto di guarigione al prendersi cura, coscienti che non tutti i malati potranno guarire, ma tutti devono sentire che non sono soli, che ci prendiamo cura di loro”. E occorre anche “dare un senso all’impotenza di chi, nonostante abbia fatto di tutto, si sente sconfitto di fronte alla morte di un paziente”. Con il permesso del vescovo e con le opportune misure di sicurezza, don Paolo porta la Comunione nei reparti: “Negli infettivi – racconta –
abbiamo trasformato una cassaforte in tabernacolo dove conservare le ostie.
Per chi lo desidera, ricevere la Comunione tutti i giorni è una grande consolazione”. Don Paolo, che ormai vive in ospedale – “il mio piccolo ufficio di 20 metri quadri è diventato anche studio e camera da letto” – ascolta i pazienti e li sostiene, ma non solo dal punto di vista spirituale. “Porto loro i giornali, e quando i parenti non possono uscire vado nelle loro case a prendere i ricambi o ciò di cui hanno bisogno”. E il prendersi cura riguarda anche le famiglie che gli dicono: “Don, gli dia una carezza da parte nostra, gli dica che tutti a casa lo stiamo aspettando”, o alle quali è spesso lui a comunicare il decesso del congiunto. E’ un sacerdote molto pratico: “Chi soffre ha bisogno di gesti. La fede si esprime attraverso la preghiera e i sacramenti, ma anche attraverso la concretezza delle nostre mani e delle nostre azioni”. Sabato scorso, celebrando come ogni settimana la messa nel reparto di ostetricia, ha detto: “Oggi si apre l’Avvento e mai come in questa situazione stiamo imparando che il Natale è concretezza, è prendersi cura di un Dio che si fa neonato per noi e ha bisogno delle nostre cure, del nostro amore, delle nostre mani. Come questi nostri pazienti”. E l’amore per i malati diventa catechesi: una ragazza ricoverata per Covid ha chiesto di fare in reparto la Prima Comunione che non aveva mai fatto. “L’ha ricevuta ieri, alla presenza anche del personale, ed è stato per tutti noi un momento di grande commozione”.
Che cosa sperano i pazienti? “Ovviamente di essere a casa per le feste. La preoccupazione maggiore è quella di passare il Natale qui, lontani dalle famiglie. Stiamo ragionando su che cosa potremmo organizzare. Attraverso la pagina Facebook della Cappellania ospedaliera stiamo pensando a dei momenti di preghiera”. Ma in ospedale non ci sono solo cattolici, e come assistente spirituale don Paolo si occupa di tutti. Gli capita di chiamare l’imam per i pazienti musulmani o di metterli in contatto con le loro comunità di riferimento. Oppure di pregare insieme precisando: “Ognuno prega come sa, come crede, come desidera”. “Non devo fare proseliti – assicura -. In reparto voglio portare sollievo, gioia, speranza. A loro non importa che io sia un prete cattolico; interessa solo che io sia lì per loro”.
Pensando al Natale don Paolo esprime una duplice speranza. Anzitutto che i pazienti costretti a trascorrerlo in ospedale lo vivano con la maggiore serenità possibile: “Noi porteremo tutto il nostro affetto e la nostra vicinanza perché sia così – assicura -. Nei reparti io scherzo molto, faccio battute. Potrebbe sembrare fuori luogo ma cerco di trasmettere gioia ai pazienti e al personale. A volte ci sono malati che non vogliono mettersi il casco. Qualche giorno fa mi hanno chiamato in pneumologia: ‘Don, è molto spaventato, vieni tu che sai rasserenare tutti’. Mi ha chiesto di tenergli la mano. L’altra notte alle 2:30 gli infettivi c’era un paziente che aveva paura di essere intubato e mi ha chiesto di rimanere con lui fino a quel momento. I malati non hanno bisogno di essere compatiti ma di sapere che non sono soli”. Ma il pensiero va anche al personale: “Spero possano avvertire di nuovo il sostegno e il riconoscimento della gente e che quando calerà la tensione non ci si dimentichi di tutto quello che hanno fatto e che stanno continuando a fare”.