Ragazzo ucciso a Napoli durante una rapina. Don Pagano: “Serve un patto educativo per intercettare la ‘paranza degli invisibili'”

Nella notte tra sabato 29 febbraio e domenica 1° marzo un quindicenne, con un complice diciassettenne, tenta di rapinare un giovane di poco più grande di lui. Non sa che è un carabiniere in borghese, che, minacciato da una pistola giocattolo, ma uguale a una vera, spara. Il primo è morto, il secondo ora indagato per omicidio volontario. Il fenomeno delle baby gang nel capoluogo partenopeo è un problema molto serio, agevolato da subculture nelle quali la legalità non ha alcun valore, anzi. Abbiamo sentito su questa realtà il cappellano dell'Istituto penitenziario per minori di Nisida

Un ragazzo di 15 anni morto e uno di 23 indagato per omicidio volontario: questo il bilancio del tentativo di rapina da parte di Ugo Russo ai danni di un giovane di poco più grande di lui, un carabiniere in borghese, nella notte tra sabato 29 febbraio e domenica 1° marzo, a Napoli. Dopo la morte del quindicenne, che era stato trasportato all’Ospedale Pellegrini, un gruppo di facinorosi ha devastato il pronto soccorso. Uno scenario da Bronx su cui abbiamo ascoltato don Gennaro Pagano, cappellano dell’Istituto penale per minorenni di Nisida e direttore della Fondazione “Centro educativo diocesano Regina Pacis”, che ha, tra i suoi progetti, la Cittadella dell’inclusione, inaugurata dal card. Gualtiero Bassetti, il 23 gennaio.

Don Gennaro, purtroppo ancora una volta giovanissimi alla ribalta per fatti di sangue…

In questa situazione emergono due vittime, entrambi giovani: uno che ha perso la vita e l’altro che si porterà nel tempo un peso, oltre ai problemi che potrà avere dal punto di vista legale. A questo si aggiunge l’atto gravissimo e delittuoso avvenuto all’ospedale Pellegrini che ci dice qual è il contesto e la cultura da cui quel quindicenne proveniva. La domanda che come società civile, come Stato, come Chiesa, come esseri umani dobbiamo porci è: quanti ragazzi a Napoli vivono le stesse modalità e le stesse situazioni di Ugo? Cioè lasciati a una cultura che è spesso è finta cura dei propri figli, dei propri giovani. Quali vite vengono intercettate dalla Napoli cosiddetta bene? Le politiche sociali, le politiche educative, le politiche associative vengono veramente utilizzate per intercettare questa che io chiamo la “paranza degli invisibili”? Di questi ragazzi, infatti, conosciamo nome e cognome solo quando vengono sui giornali o perché sono stati vittime o perché hanno fatto vittime. Fermo restando un discorso di libertà individuale e dell’impossibilità di entrare nel mistero di un altro, qui stiamo parlando di ragazzi che vivono e crescono in una città dove non vi è un controllo sociale, perché i protagonisti della rapina, Ugo e il suo complice, erano due giovanissimi su un motorino in piena notte che compivano rapine. Non è il primo episodio del genere. Non voglio dire che bisogna usare il metodo di Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, di allontanare certi minori dal loro contesto di origine, ma almeno bisognerebbe vigilare su questi contesti.

Questi ragazzi hanno mai avuto una “vita buona”?

Ciò che per noi è “vita buona” non lo è per gran parte della popolazione: Napoli non è una città, è un insieme di città, Napoli non è una cultura, è un insieme di culture, che a volte convivono nello stesso quartiere. Ogni subcultura ignora quella della città che le sta accanto. Il dramma è che quello che tu giudichi buono non è considerato buono dalla famiglia di Ugo e dal suo contesto, dal suo quartiere, dal suo ambiente. “Buono” per loro è altro. Cosa possiamo fare noi se non avere più presenza possibile verso questi ragazzi quando sono bambini per cercare di seminare parole, concetti, possibilità nella loro vita?

Qui non c’è un “terzo genitore” che vigili su questi ragazzi.

Non c’è nessuno che, rispetto a questi nuclei familiari problematici, eserciti un minimo di controllo sui loro ragazzi. Ciò significa che in certi ambienti non si riprodurrà solo l’essere umano, ma con il bambino si riprodurrà anche una certa cultura.

Come si dovrebbe intervenire?

La prima cosa è rendersi conto che non esiste una reale concertazione tra tutti gli attori sociali che si interfacciano con le nuove generazioni. E mi chiedo: è possibile fare scuola a Napoli come si fa scuola a Milano? O, nella stessa città, la scuola che si fa a Scampia può essere la stessa che si fa al Vomero? Le politiche sociali come vengono gestite? Le cosiddette “educative territoriali” come vengono gestite? La maggior parte di esse non hanno una continuità, i finanziamenti sono dati il più delle volte a cooperative e associazioni amiche del politico di turno e non a quelle che adottano i metodi più efficaci, si guarda al clientelismo politico. Quando cambia il politico finisce un percorso e ne inizia un altro.

Mali vecchi ma che sono, tuttora, molto presenti.

Si riesce, quindi, a incidere poco?

Questi ragazzi non sono seguiti in maniera efficace continuativamente negli anni. E ancora tra le educative territoriali, i centri diurni, le politiche sociali, i Tribunali c’è una reale concertazione? La società si presenta unita rispetto alla vita di un minore o frammentata.

Purtroppo, la frammentazione significa l’inefficacia dal punto di vista educativo:

ognuno pensa al proprio piccolo settore e l’efficacia degli interventi verso questi ragazzi equivale a zero per molti di loro. Poi c’è il ragazzo fortunato che incontra l’allenatore, l’educatore o il prete, che gli cambia la vita: stiamo parlando, però, di casi sporadici, bellissimi, che ascoltiamo in tv e ci fanno piangere. Ma cosa sono di fronte all’esercito di ragazzi che vivono qui?

Cosa può fare la Chiesa?

La Chiesa fa già tanto, il punto è che è lasciata sola. E non dovrebbe essere spesso solo un ente assistenzialistico ma anche un pungolo rispetto a certe dinamiche istituzionali e sociali che non funzionano per niente. A volte, non ne ha neanche la forza: penso al povero parroco che sta nel quartiere di provincia, cosa può fare? A volte anche la scuola non ha la forza. Per questo il punto è unirsi, la rete, la sinergia lasciando le logiche burocratiche che ci impediscono di camminare insieme. Parlando con un ragazzo rinchiuso a Nisida, amico di Ugo, mi ha detto: “Io spero di andarmene da questa città, una volta uscito di qua, perché io mi lascio facilmente condizionare e purtroppo ho conosciuto persone che mi hanno condizionato negativamente. Oggi il carcere mi ha dato una seconda possibilità. Al posto di Ugo, potevo esserci io”. Questo è un esercito di invisibili e non si può combattere questa battaglia con una logica frammentata.

Occorre un patto educativo per Napoli.

Come il Papa ha parlato di un patto educativo globale, qui ci vuole un patto educativo per Napoli e la sua cintura metropolitana, in cui dovrebbero essere protagonisti tutti coloro che intersecano la vita dei minori. Forse, dovremmo lanciarlo noi come Chiesa. Napoli impari a prendersi cura dei suoi figli più fragili come madre premurosa e non più come una matrigna dormiente e distratta.

Altri articoli in Territori

Territori