L’ultimo panel della sessione di formazione ecumenica del Sae, conclusa sabato al Monastero di Camaldoli, era dedicato al tema “Etica e pratiche di responsabilità”. Protagonisti, spiega una nota diffusa oggi dal Sae, sono stati don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, e Dorothee Mack, pastora protestante che ha vissuto diversi anni a Milano e ora risiede e opera a Karlsruhe, in Germania.
Rifacendosi all’enciclica Laudato si’ e all’esortazione Laudate Deum, don Bignami ha presentato i pilastri di un’etica della responsabilità ecologica, “che richiede un perenne approfondimento”. La riflessione ha ripreso il concetto bergogliano di “antropocentrismo situato” come superamento di quell’antropocentrismo dispotico che ha portato gli esseri umani a una visione dualistica, basata sul dominio, e a pratiche esclusiviste, di distanza e di sfruttamento degli altri esseri viventi. “La vita umana è incomprensibile senza le altre creature. C’è una continua interazione tra ambiente e umanità e tutte le creature si possono comprendere solo nelle loro molteplici relazioni costitutive. Uomo e Creato devono pensarsi come unicum, un tutt’uno: le scelte che facciamo su un fronte ricadono sull’altro, la trascuratezza di un elemento impatta sull’altro, la valorizzazione dell’uno porta benefici all’altro”.
La trasformazione che dobbiamo operare riguarda la cultura e lo spirito. La visione olistica su cui insiste Papa Bergoglio era già nei Padri della Chiesa e in san Francesco, ha detto Bignami citando dei passi dei loro scritti. “C’è bisogno di coinvolgere i diversi fronti della vita umana: la politica, la finanza, il lavoro, l’urbanistica, l’agricoltura, l’industria, il commercio, il turismo, la fede religiosa, l’educazione, la ricerca scientifica, l’uso delle tecnologie, la produzione energetica”.
Dopo queste premesse, il relatore si è soffermato in primo luogo sulla casa comune come spazio relazionale e di cura. “Ogni proposta di sostenibilità non può non tenere conto della relazione, in quattro livelli: il rapporto con Dio, con i fratelli e le sorelle, con l’intero creato, con noi stessi; senza dimenticare la solidarietà tra generazioni, perché ‘tutto è connesso’”. La cultura della cura, in secondo luogo, è accoglienza della fragilità, ha sostenuto il direttore dell’Ufficio Cei. “È importante perché noi siamo capaci di cura, di bellezza; lo dice questo luogo immerso nella natura. Laudato si’ afferma che tutto questo è uno sguardo, uno stile di vita, una spiritualità, una politica diversa. In fondo è l’accettazione del limite. Tra la cultura della cura e la cultura dello scarto la differenza la fa il fatto che nella cultura della cura tu accetti il limite: il limite tuo, delle risorse, del pianeta. Non è un caso che stiano progettando di andare su un pianeta B: è una garanzia per chi può permetterselo. Dietro c’è una questione di giustizia sociale, non solo di pianeta possibile”.