Cop: a Seveso convegno sulla “parrocchia sinodale”. Mons. Bressan, “Milano come Ninive. Missionari metropolitani”

“Per una parrocchia sinodale, missionaria e sempre vicina alla gente”: è il titolo della tre-giorni promossa dal Cop, Centro di orientamento pastorale, in corso dal 24 al 26 giugno al Centro pastorale di Seveso (Monza Brianza). Il denso programma di relazioni, “focus” e dialoghi, è stato aperto oggi da un saluto di don Antonio Mastantuono, direttore di “Orientamenti pastorali”, cui è seguita la prima relazione, “Milano come Ninive. Missionari metropolitani, pronti a riconoscere gli itinerari dello Spirito”, affidata a mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della diocesi di Milano.
“Il voluto rimando nel titolo a una lettera pastorale del cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, indirizza in modo chiaro il senso della mia relazione”, ha esordito Bressan. “Chiede un rovesciamento di prospettiva. Anziché ragionare in modo endogeno sulle riforme delle nostre istituzioni (noi che ci raccontiamo come cambieremo), assumere un punto prospettico esterno e simmetrico: in quale modo i cambiamenti anche radicali che il fenomeno urbano genera a livello culturale mondiale ci offrono prospettive inedite per leggere e immaginare le forme che la Chiesa ha assunto per abitare la storia, la città degli uomini e delle donne di oggi e di domani?”. “Cercheremo di indagare sulle conseguenze che l’imporsi della rivoluzione urbana in questo XXI secolo genera dentro l’esperienza cristiana sia individuale che comunitaria, innescando trasformazioni anche molto profonde della forma ecclesiae”.
Attraverso il magistero della Chiesa, gli interventi dei pontefici e diversi spunti dell’arte e della cultura “laica”, mons. Bressan, ha affrontato diversi “capitoli”: la forza della metafora (Milano come Ninive), la città come metafora, alcune “esplorazioni urbane”, un approfondimento dedicato alle religioni nella metropoli, il cristianesimo come energia capace di riordinare lo spazio urbano, il sacramento cristiano e la forma dello spazio urbano.
Infine un’ampia riflessione sulla “grammatica per il cristianesimo urbano del XXI secolo” di taglio teologico. “La teologia è in grado di recuperare dal bagaglio dell’esperienza di fede gli ingredienti, gli elementi strutturanti una sorta di grammatica capace di descrivere bene le ragioni della originalità – oltre che della indeducibile indispensabilità – della presenza di spazi sacri nel tessuto urbano odierno”. Il relatore ha quindi indicato alcune “regole”. “Una prima regola fa capo alla dimensione del simbolo e alla sua forza, per superare la riduzione funzionalista della organizzazione della vita nella cultura postmoderna. Per consentire agli individui di riuscire a bucare – a oltrepassare – la calotta artificiale costruita dall’onnipresente e pervasivo mondo digitale ci servono dei luoghi che siano capaci di riattivare la forza primordiale dei simboli fondamentali (luce, acqua, terra). Simboli capaci di trasfigurare la percezione e l’esperienza, simboli performativi, simboli ‘per’ realizzare qualcosa che prima non esisteva, e non soltanto simboli ‘di’ qualcosa già esistente e sperimentato. Una presenza cristiana urbana va immaginata come una serie di azioni e luoghi capaci di realizzare esperienze ricodificatrici, che suggeriscono nuove letture delle proprie esperienze e delle proprie rappresentazioni”. Così “il senso del sacro tipico dell’esperienza religiosa va assunto e orientato perché stimoli nelle persone che abitano queste azioni e luoghi – o soltanto li attraversano – la percezione di una dimensione nascosta che struttura la vita”.
Una seconda regola “fa capo alla ricerca di un’origine e di una trascendenza che è iscritta in ogni persona umana. Abitualmente la codifichiamo nella cultura cristiana come la ricerca e il bisogno di Dio, il bisogno di una esperienza giusta della relazione con Lui. In una cultura che avendo espulso la questione di Dio ha fatto degli eccessi (esoterismo e fondamentalismo) il luogo della presenza di questa domanda, occorrono degli spazi, delle azioni e delle assemblee che permettano di riscoprire la sua naturalità, imparando a riconoscere la mancanza e l’eccedenza come le forme naturali in cui fare esperienza di sé e scoprire la presenza di Dio. Il cristianesimo ha saputo abitare questo spazio antropologico attraverso gli edifici che la storia ci consegna (chiese, ma anche oratori, luoghi di ospitalità e di accoglienza, di studio e di formazione, di preghiera …): riabitarli, riutilizzarne i codici simbolici iscritti, tornare a raccontare non solo e non tanto verbalmente l’esperienza di un Dio che non è indifferente all’uomo, che lo ha cercato e gli si è fatto vicino, che si è incarnato, è davvero una esperienza che fa bene non soltanto a chi si riconosce cristiano ma ad ogni uomo e donna, anche di religioni diverse”.
In questa prospettiva “si è in grado di percepire una terza regola della presenza cristiana nella città post-moderna: la necessaria dimensione generativa, la capacità che deve avere di generare modi diversi di essere insieme. I luoghi e i riti cristiani – ma anche le altre azioni che le istituzioni cristiane seminano nei territori urbani – sono abitualmente spazi in cui si vive l’esperienza dell’essere raccolti e unificati. Il dono di divenire ‘uno’, un popolo, non uniforme ma sinfonico, capace di unità nella ricchezza e nella valorizzazione delle singolarità è davvero un carattere che l’esperienza religiosa realizza attraverso i suoi spazi e le sue azioni. Occorre sottolinearla, in questa epoca di individualismo subìto oltre ostentato e alla fine di solitudine. Occorre ricordare a tutti che il fondamento della nostra speranza è quel disegno di raccogliere i popoli in uno che Dio ha acceso nel momento stesso della creazione. È in questo disegno la sorgente del senso della nostra esistenza e il suo fine. E le esperienze concrete di vita questo disegno lo sanno non soltanto raccontare; lo sanno anche far vivere”.
A questo disegno “e alla sua esperienza si lega una quarta regola. Le forme che il cristianesimo urbano assume devono essere capaci di trasmettere un’etica, codici di comportamento. Presenze stabili e istituite – solidificate anche in edifici sacri che raccontano la storia che li ha generati – hanno la potenzialità innata di richiamare in chi li attraversa un codice di comportamento. Sanno suscitare domande etiche, sanno accendere senza bisogno di richiami verbali riflessioni ed esami di coscienza. Il cristianesimo urbano non può non essere un dispositivo che faciliti esperienze in grado di insegnare valori che si comunicano come comandamenti, leggi di vita, custodi del carattere buono dell’esperienza con Dio e tra di noi”.

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