Contrastare lo spopolamento e ridare nuova vita alle aree interne del nostro Paese è possibile. Lo dimostra la ricerca dell’Iref, presentata ieri a Napoli, durante la Conferenza nazionale di Coesione territoriale, organizzata dalle Acli. Lo studio, svolto in collaborazione con l’Università del Molise e il Centro di ricerca Aria (Aree interne e Appennini), ha analizzato quali sono le condizioni che spingono oltre 12 milioni di persone a decidere di vivere in un comune di un’area interna del nostro Paese.
Nei comuni delle aree interne si registra una macroscopica tendenza verso lo spopolamento: hanno avuto un decremento continuo di popolazione residente il 34% dei comuni intermedi, il 51,1% dei centri periferici e il 58,1% degli ultraperiferici. Ci sono però anche 354 comuni classificati come aree interne che nel periodo considerato, dal 2004 e il 2019, sono stati oggetto di un ripopolamento continuo: ossia per quindici anni consecutivi hanno guadagnato popolazione. Dei quasi 1.300 comuni Italia che hanno una crescita stabile e duratura di popolazione residente il 27,4% è in un’area interna. Questi dati sono stati incrociati con la “Classificazione dei Comuni per circoscrizione e tipo di località turistica”, elaborata dall’Istat nel 2015, per verificare quanto la leva del turismo sia forte nei processi di restanza e ripopolamento delle aree interne. Il 59,9% dei comuni “non turistici-periferici” ha subito un quindicennio di spopolamento continuo, ma c’è anche una piccola quota pari al 5,1% che invece nel periodo 2004-2019 si è ripopolato, ovvero 55 paesi che nonostante non presentino molte attrattive turistiche, non sono stati abbandonati, anzi hanno accolto nuova popolazione.
Dopo aver evidenziato che il turismo è un driver di contenimento allo spopolamento che opera solo in alcuni territori, la ricerca ha analizzato qual è la relazione tra declino demografico e vitalità della società civile. Nei comuni periferici in ripopolamento le istituzioni no profit attive nel 2011 erano tre volte più numerose che nei centri in spopolamento. Guardando al numero di contribuenti che hanno destinato il 5×1000 dell’Irpef a organizzazioni sociali locali si nota che i comuni non turistici in ripopolamento hanno valori doppi di scelte di 5×1000 rispetto ai comuni turistici in spopolamento. Gli indicatori considerati mostrano come dal duemila in poi nelle aree interne ci sono stati dei comuni che hanno vinto la sfida contro lo spopolamento anche grazie al capitale sociale e agli investimenti nei servizi alle persone. In quindici anni, questi paesi hanno regolarmente aumentato la loro popolazione, pur non potendo beneficiare di un volano come il turismo.
Per capire quale combinazione di risorse ha funzionato contro lo spopolamento sono stati selezionati comuni periferici e non turistici (Marsicovetere, San Sostene, Pesche, Rovetta, Altino, Monterenzio), rispetto ai quali sono stati realizzati sei casi di studio basati su interviste a testimoni privilegiati (sindaci, assessori, responsabili di enti di terzo settore). I risultati indicano come i livelli di sviluppo locale sono molto differenti e le esperienze locali sono difficilmente replicabili altrove. Tuttavia, per evitare che le aree interne si spopolino serve il lavoro: nell’indotto del turismo montano o marino, in quelle poche grandi aziende che decidono di non delocalizzare all’estero, negli ospedali, nelle energie rinnovabili. Inoltre, servono servizi pubblici: le scuole, un minimo di trasporti, gli asili nido. A ciò si deve affiancare la società civile, organizzata anche in piccole cooperative e associazioni con pochi volontari, ma che sia in grado di lavorare in sinergia con l’ente locale per attivare e completare l’offerta dei servizi.