“Il gesto di questo ragazzo è una drammatica riprova del fatto che i Cpr sono luoghi di detenzione dove la vita è ai limiti della sopportabilità, tanto da indurre un giovane a togliersi la vita. Non sono luoghi adeguati per quello che la legge prevede, ossia i rimpatri”. Lo afferma al Sir Oliviero Forti, responsabile delle politiche migratorie e della protezione internazionale di Caritas italiana, commentando la vicenda di un 22enne guineano che si è impiccato la scorsa notte all’inferriata esterna del suo settore nel Cpr di Ponte Galeria, alla periferia di Roma, a cui è seguita una rivolta degli altri migranti detenuti. Questo gesto disperato, prosegue, “è l’immagine più vivida della disperazione vissuta da queste persone: non solo falliscono il progetto migratorio ma devono tornare nel proprio Paese e rendere partecipe la comunità della sconfitta. E questo è un dolore che molti non riescono a reggere perché non hanno alternative o perché non hanno risorse per pagare un debito contratto per venire in Italia”. La detenzione amministrativa nei Cpr, spiega Forti, “è stata da noi sempre criticata perché poco efficace. Il numero dei rimpatri è bassissimo e non giustifica né lo sforzo economico, né le sofferenze a cui sono spesso costrette queste persone. I numeri dei rimpatri sono bassissimi. Il rapporto costi benefici è assolutamente a perdere. I Cpr nascono per essere dei centri per i rimpatri ma abbiamo visto in questi anni che sono una sorta di surrogato delle nostre carceri, con le drammatiche conseguenze cui assistiamo. Bisognerebbe trovare formule diverse, più rispettose della dignità delle persone più efficaci nell’obiettivo che vogliono raggiungere”.
“Bisogna umanizzare questi centri e creare meccanismi più efficaci per dar luogo ai rimpatri – rimarca Forti –. E laddove non sono possibili i rimpatri, perché spesso non ci sono accordi con i Paesi di provenienza, evitarli. Perché sono inutili sofferenze per chi deve subire queste detenzioni”. La Caritas chiede “che venga completamente rivisto il sistema di trattenimento delle persone che non possono stare sul nostro territorio perché entrate irregolarmente. Ripensare l’intero sistema perché il rispetto dei diritti umani torni al primo posto”. Anche il fatto che sia impedito l’accesso libero alla stampa o alle organizzazioni umanitarie, che potrebbero invece dare un contributo, “crea condizioni di sospetto, perché non si sa mai bene cosa accade all’interno, ci sono tensioni, non c’è trasparenza”. Sarebbe auspicabile invece, suggerisce Forti, un “tavolo di dialogo tra Governo e Terzo settore sul tema dei Cpr”: “Stando all’interno delle strutture potremmo ascoltare i bisogni delle persone, cercare delle soluzioni, per portare i temi al livello istituzionale, migliorare la qualità di vita e l’efficacia dei rimpatri”.