Tra i Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America ebbero un ruolo certamente preminente nella riorganizzazione del nuovo ordine internazionale, rispetto ai Paesi cosiddetti “alleati” che conobbero l’occupazione nazista e la devastazione. Oggi l’America, secondo alcuni politologi, è “un impero nascosto”, nel senso che, “pur non mostrandosi come tale, è per sua natura imperialista sul piano politico ed economico”. Parte da questa premessa l’analisi geopolitica di p. Giovanni Sale, scrittore de La Civiltà Cattolica, nel numero 4.188 della rivista in uscita sabato ma, come di consueto, anticipato al Sir.
L’architettura imperiale statunitense, secondo il politologo Lucio Caracciolo citato dal gesuita, verte sul principio che non vi è “letteralmente centimetro quadrato in terra e in mare che possa lasciare l’America indifferente”. Dopo la Seconda guerra mondiale, prosegue Sale, questo impero “si è strutturato in forma marittima: il planisfero è stato diviso in sette spicchi, ognuno dei quali è presidiato da sette flotte della US Navy”. Il punto centrale è, allora, “controllare direttamente o indirettamente i cosiddetti ‘colli di bottiglia’, che regolano i traffici da cui passano i nove decimi delle merci, oltre ai cavi internet, gasdotti, oleodotti e altro”. In questo scenario, secondo il gesuita, “l’informalità dell’impero consente agli Usa un grado notevole di flessibilità tattica nel muoversi nello scacchiere geopolitico internazionale. Da qui il sistema delle alleanze o di più larghe intese che disegna la sfera di influenza americana”. In questa struttura, “spiccano due nuclei centrali: il primo, l’anglosfera, centrato sull’accordo dei cinque occhi (americano, inglese, canadese, neozelandese e australiano); il secondo costituito dai Paesi che formano il Patto Atlantico, arrivati oggi a 32.
Di qui, in estrema sintesi, la conclusione di Sale: “Sarà, ma solo in parte, il nuovo presidente degli Usa a determinare se vorrà governare una Confederazione di Stati o un impero ‘oceanico'”.