Alzheimer: Università Cattolica e Policlinico Gemelli, grazie a un finanziamento ottenuto con Pnrr 2023 saranno testati nuovi approcci terapeutici

(Foto Università Cattolica)

“È stata ampiamente dimostrata una stretta correlazione tra insulino-resistenza e malattie neurodegenerative, tanto che la malattia di Alzheimer viene anche definita diabete di tipo III”. Lo ricordano gli autori di uno studio pubblicato sulla rivista Pnas dal gruppo di Claudio Grassi, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e ordinario di Fisiologia dell’Università Cattolica, e da Salvatore Fusco, associato di Fisiologia presso lo stesso Ateneo.
“In questo nuovo lavoro abbiamo dimostrato che nel cervello, durante le prime fasi della malattia di Alzheimer, le alterazioni tipiche dell’insulino-resistenza cerebrale determinano un aumento della quantità dell’enzima zDHHC7 e l’alterata S-palmitoilazione di proteine importanti per la regolazione delle funzioni cognitive e dell’accumulo di proteina beta-amiloide”, dice Fusco.
“I nostri dati dimostrano che, in modelli sperimentali di Alzheimer, l’inibizione sia farmacologica sia genetica della S-palmitoilazione proteica sia in grado di contrastare l’accumulo di proteine dannose per i neuroni e ritardare l’insorgenza e la progressione del declino cognitivo. Inoltre, anche nei cervelli post-mortem di pazienti deceduti con l’Alzheimer abbiamo riscontrato elevati livelli di zDHHC7 e di S-palmitoilazione proteica, identificando una correlazione inversa tra i livelli di S-palmitoilazione della proteina BACE1 e il mantenimento delle funzioni cognitive nei pazienti”, aggiunge Francesca Natale, primo autore dello studio. In pratica i pazienti con bassi livelli di S-palmitoilazione della proteina BACE1 totalizzavano punteggi migliori alla scala di valutazione cognitiva in uso, la Mini Mental State Examination (MMSE).
Quando in esperimenti condotti su topi geneticamente modificati che riproducono il quadro clinico della malattia di Alzheimer i ricercatori hanno spento gli enzimi zDHHC con un farmaco sperimentale somministrato tramite spray nasale, il “2-bromopalmitato”, sono riusciti a fermare la neurodegenerazione e frenato i sintomi tipici, riducendo, tra l’altro, l’accumulo di beta-amiloide e da ultimo allungando la vita degli animali.
“Ad oggi, non sono disponibili farmaci in grado di bloccare selettivamente l’enzima zDHHC7 e il 2-bromopalmitato non è sufficientemente preciso – sottolinea Grassi – ma, grazie al finanziamento ottenuto nell’ambito del bando Pnrr 2023 da parte del Ministero della Salute, testeremo in modelli sperimentali nuovi approcci terapeutici facilmente traslabili un domani nell’uomo, come terapie basate su ‘cerotti genetici’ (piccoli ‘oligonucleotidi’ che si appiccicano sull’RNA dell’enzima zDHHC e ne impediscono la maturazione) o proteine ingegnerizzate capaci di interferire con l’attività degli enzimi zDHHC”.

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