I tassi di mortalità tra i neonati affetti da Hiv sono ancora alti in Africa nonostante la diagnosi rapida dell’infezione e la disponibilità delle terapie antiretrovirali. È quanto emerge da due nuovi studi condotti dal consorzio di ricerca internazionale Epiical guidato dalla Fondazione Penta con il coordinamento scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Queste ricerche hanno portato alla scoperta di due proteine nel sangue predittive del rischio di morte. Dal 2015 i ricercatori del consorzio Epiical , composto dai maggiori Centri per l’Hiv di Europa, Africa e Usa, svolgono attività scientifica e clinica per il controllo dell’infezione in età pediatrica soprattutto nei Paesi svantaggiati dove oggi si concentra il più alto numero di bambini contagiati dal virus. Nello studio clinico pubblicato sulla rivista Lancet e Clinical Medicine, coordinato dai ricercatori dell’Ospedale Universitario Ramón y Cajal di Madrid, sono stati coinvolti 215 neonati affetti da Hiv in Sudafrica, Mozambico e Mali. Questi bambini hanno iniziato la terapia antiretrovirale (Art) entro i primi sei mesi di vita e entro tre mesi dalla diagnosi. Malgrado la disponibilità di farmaci e l’avvio precoce delle cure, è stato rilevato un tasso di mortalità del 10% entro il primo anno di trattamento (in Europa è inferiore all’1%); del 12% entro il secondo anno e stabile al 12% anche dopo 3 anni. Inoltre, solo nel 42% dei neonati arruolati nella ricerca è stato riscontrato un buon controllo dell’infezione per almeno un anno. I principali fattori di rischio mortalità identificati nell’ambito di questo studio sono l’alta carica virale all’avvio della te rapia e le condizioni sociali avverse delle famiglie che influiscono sulla corretta aderenza al piano terapeutico.
La ricerca sulla mortalità neonatale per Hiv è stata la base per lo studio di laboratorio, appena pubblicato sulla rivista scientifica Nature scientific report, condotto a Roma dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù con l’Università di Roma Tor Vergata. Partendo dai campioni di sangue dei bambini africani arruolati nel precedente studio, i ricercatori hanno indagato la presenza di indicatori del rischio di morte. Il team di ricerca ha analizzato il plasma di un gruppo di bambini con infezione da Hiv acquisita nel periodo perinatale deceduti, di un gruppo di sopravvissuti e di un gruppo di controllo composto da bambini sani non esposti all’Hiv. Dal confronto dei dati è emerso che la presenza nel sangue di alti livelli delle proteine IL-6 e CXCL11 è predittiva di mortalità.
Secondo l’ultimo rapporto Unaids, sono circa 1.800.000 i bambini africani, da 0 a 14 anni, affetti da Hiv. La regione più colpita è l’Africa subsahariana che, da sola, conta il 90% dei bambini sieropositivi a livello mondiale. I progetti di prevenzione contribuiscono a ridurre l’incidenza delle nuove infezioni pediatriche che, tuttavia, sono oltre 100.000 l’anno. In Italia, grazie a programmi di prevenzione della trasmissione verticale (da madre a figlio), l’incidenza dell’Hiv pediatrico è estremamente bassa. Secondo i dati del Centro Operativo Aids dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021 si sono registrati meno di 10 casi di nuove infezioni pediatriche. Al Bambino Gesù, Centro di riferimento nazionale per la cura dei bambini con Hiv, vengono seguiti circa 80-100 pazienti pediatrici l’anno. La maggior parte di questi bambini è stata infettata per trasmissione verticale e riceve la terapia antiretrovirale Haart che consente di mantenere una buona qualità della vita e una bassa carica virale.