Evitare che questo ultimo caso svizzero “diventi l’archetipo di un modello in base al quale per uno stato depressivo, come succede in nord Europa, si è legittimati a chiedere il suicidio assistito”. Se ciò accadesse, “apriremmo un varco che potrebbe tradursi in un’insidia per tutta la società”. Ad affermarlo in un’intervista al Sir è Alberto Gambino, professore ordinario di diritto privato all’Università Europea di Roma, di cui è anche prorettore vicario, e presidente di Scienza & Vita, commentando l’ultimo caso di suicidio assistito in Svizzera che ha avuto come protagonista una donna di 55 anni, colpita da una gravissima depressione dopo la morte del figlio adolescente, che ha deciso di porre fine alla propria vita in una clinica alle porte di Basilea. Un caso umanamente delicatissimo e che merita molto rispetto. Non si può descrivere lo strazio di una mamma che perde un figlio; tuttavia, tentare, come da qualcuno è stato fatto, di introdurre accanto alle malattie fisiche e degenerative la nuova categoria dell’existencial suffering appare un po’ una forzatura.
“Dobbiamo limitarci a prendere atto di una volontà auto deterministica, e quindi assumerla inevitabilmente come stella polare”, oppure occorre interrogarsi sugli “effetti di una sorta di ratifica da parte del sistema sanitario, dell’ordinamento, delle leggi di questa volontà”, e sui suoi “riflessi sulla collettività?”, l’interrogativo posto dal giurista. “Il tema di fondo – spiega – è comprendere che ogni scelta legata al provocare una morte indotta anzi termine ha precise ripercussioni sociali; il punto cruciale è chiedersi quali vogliamo siano i limiti, non già con riferimento al caso singolo, ma con riferimento alla generalità dei pazienti”. Perché, gli chiediamo, si tenta di spostare sempre più in là l’asticella? Si tratta, risponde, anche di “una questione di efficienza economica del sistema, di cinico calcolo di analisi costi-benefici economici; si tenta di spostare l’asticella per consentire ad un numero sempre maggiore di persone di rientrare tra i possibili ‘candidati’ al suicidio assistito. Questo è molto grave perché i pazienti più fragili, vulnerabili, soli, in un momento di non piena lucidità potrebbero in qualche modo essere indotti a prendere in considerazione questa procedura, sentendosi magari un peso per il sistema e quindi avvertendo quasi una sorta di ‘dovere sociale’ di interrompere la propria vita”. Talvolta, conclude Gambino, “dietro battaglie che sembrano ideologiche ci sono battaglie economiche: prestazioni sanitarie che potrebbero essere allocate altrove in una visione del mondo che probabilmente distingue la dignità dei pazienti a seconda se siano ‘recuperabili’ o ‘irrecuperabili’”.