“In tutti i Paesi europei non riusciamo a garantire una fecondità minima di due figli, indispensabile per avere un equilibrio. Ma c’è molta eterogeneità. E questo dipende dalle politiche messe in campo a sostegno delle famiglie, dei giovani per l’ingresso del lavoro, abitative”. Lo ha detto, stamattina, Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all’Università Cattolica, intervenendo, con una relazione dal titolo “Politiche demografiche e ricadute socioculturali”, al seminario di studio “La denatalità in Italia: eziologia e politiche di intervento”, promosso dal Centro di ricerca e studi sulla salute procreativa (Cerissap) della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica.
“La Francia è uno dei Paesi migliori per natalità – ha ricordato il demografo -. Se riuscissimo in Europa a mettere in campo le migliori politiche possibile raggiungeremmo come risultato un tasso di 1,85 fecondità e 27 anni e mezzo come età in cui una donna dà alla luce il suo primo figlio. Quindi, saremmo sempre sotto il tasso sufficiente. Ma ora il tasso di fecondità medio in Europa è poco su 1,5”.
Nel nostro Paese la situazione è più drammatica: “In Italia siamo a 1,24: quindi bisogna attuare delle politiche adeguate, ma è anche una questione culturale. E c’è trappola demografica: diminuisce il numero di donne in età riproduttiva. Ma anche se con politiche riuscissimo a riportare la fecondità a 1,5 non basterebbe: perché porteremmo da meno 400mila nascite a 420mila, ma poi ritornerebbe a scendere. Sarebbe un impatto molto modesto, con dati pre-pandemia, ma comunque non scongiurerebbe il declino demografico. L’unico scenario possibile sarebbe riportarci almeno a un tasso di fecondità 1,8 in 15 anni, ma richiede un impegno particolare”. Questa, per Rosina, “deve diventare la priorità del Paese potenziando tutte le politiche familiari e di sostegno alle nuove generazioni: solo così abbiamo ancora questa possibilità contemplata nello scenario alto dell’Istat”.
“Lo scenario mediano non contempla che le nascite riprendano a salire se il tasso di fecondità salisse in Italia da 1,24 a 1,5 – ha evidenziato il demografo -. Se finora, dopo il crollo degli anni Ottanta, non siamo riusciti a far risalire la fecondità a 1,5, oggi servirebbe uno sforzo eccezionale. Dobbiamo poi considerare l’impatto della pandemia, della guerra in Ucraina, l’impatto del problema ambientale sulle nostre vite: tutto ciò incide sul modo di vedere la vita da parte dei giovani, contribuendo a condizionare ulteriormente le loro scelte. Se abbandoniamo le nuove generazioni all’incertezza si ritroveranno indebolite nelle loro scelte e nel guardare al futuro, anche dopo di loro”. La scelta di avere figli, ha precisato Rosina, “è l’indicatore più importante per capire come si vedono le nuove generazioni e il loro modo di vedere il futuro. Avere figli indica il senso di appartenenza sociale e lega il presente con il futuro”. “Non bastano le politiche in sé, ma anche un contesto culturale e sociale che vadano incontro alle esigenze dei giovani”, ha concluso il docente dell’Università Cattolica.