Nel contesto della “post-verità” e delle “fake news”, “è ormai comune rivolgersi agli ‘influencer’, individui che ottengono e mantengono un ampio seguito, acquisiscono maggiore visibilità e riescono a ispirare e motivare gli altri con le loro idee o esperienze”. È quanto si fa notare nel Documento del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, “Verso una piena presenza”, diffuso oggi. “Adottato dalla teoria dell’opinione pubblica per l’approccio del social media marketing, il successo di un social media influencer è legato alla sua capacità di distinguersi nella vastità della rete, attirando un gran numero di follower”, si spiega nel testo, in cui si precisa che, di per sé, “diventare ‘virali’ è un’azione neutra; non ha automaticamente un impatto positivo o negativo sulla vita degli altri”. Le reti sociali, infatti, “sono capaci di favorire le relazioni e di promuovere il bene della società, ma possono anche condurre ad un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi.”, perché “l’ambiente digitale è una piazza, un luogo di incontro, dove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linciaggio morale”. “Tutti noi dovremmo prendere sul serio la nostra influenza”, l’appello: “Non ci sono solo macroinfluencer con un grande pubblico, ma anche micro-influencer. Ogni cristiano è un microinfluencer. Ogni cristiano dovrebbe essere consapevole della propria potenziale influenza, a prescindere dal numero di persone che lo o la seguono. Al tempo stesso, deve essere consapevole che il valore del messaggio trasmesso dall’influencer” cristiano non dipende dalle qualità del messaggero”. “La nostra responsabilità aumenta con l’aumento del numero dei follower”, la raccomandazione del Dicastero: “Più è grande il numero dei follower più deve essere grande la nostra consapevolezza che non stiamo agendo a nome nostro. La responsabilità di servire la propria comunità, soprattutto per coloro che ricoprono ruoli di leadership pubblica, non può diventare secondaria rispetto alla promozione delle proprie opinioni personali dai pulpiti pubblici dei media digitali”. Di qui la necessità di “essere riflessivi, non reattivi”, anche sui social media: “Dobbiamo essere tutti attenti a non cadere nelle trappole digitali nascoste in contenuti che sono intenzionalmente progettati per seminare conflitti tra gli utenti, provocando indignazione o reazioni emotive. Dobbiamo essere cauti nel postare e condividere contenuti che possono causare malintesi, esacerbare le divisioni, incitare al conflitto e approfondire i pregiudizi”. “Il problema di una comunicazione superficiale, e quindi divisiva, è particolarmente preoccupante quando proviene dalla leadership della Chiesa: vescovi, pastori e leader laici di spicco”, si legge nel documento: “Questi non solo causano divisione nella comunità, ma autorizzano e legittimano anche altri a promuovere un tipo di comunicazione simile. Di fronte a questa tentazione, spesso la migliore linea d’azione è non reagire o reagire con il silenzio per non dare dignità a questa falsa dinamica”. “Non siamo presenti nei social media per vendere un prodotto”, il monito del testo: “Non si tratta di fare pubblicità, ma di comunicare la vita, quella che ci è stata donata in Cristo. Per questo ogni cristiano deve stare attento a non fare proselitismo, ma a dare testimonianza”.