“Le forze di polizia inviate dal governo turco nelle regioni devastate dai terremoti del 6 febbraio hanno picchiato e sottoposto a maltrattamenti e torture persone sospettate di furto e saccheggio. Una persona è morta sotto tortura. In alcuni casi, le forze di polizia non sono intervenute per proteggere dagli attacchi della folla persone sospettate di aver commesso dei reati”. È la denuncia congiunta di Amnesty International e Human rights watch: “Sebbene vi siano stati furti e saccheggi di abitazioni e negozi e le forze di polizia abbiano dovuto affrontare enormi problemi di sicurezza, il diritto internazionale e le stesse leggi turche vietano maltrattamenti e torture, in qualsiasi circostanza, nei confronti di persone sospettate di aver commesso reati”. Le due organizzazioni per i diritti umani hanno intervistato 34 persone (12 persone che avevano subito torture, due minacciate con le armi dai gendarmi, oltre a testimoni e avvocati) ed esaminato immagini in relazione a 13 casi di violenze perpetrate dalla polizia, dalla gendarmeria e dai militari inviati nelle aree colpite dal terremoto, ai danni di 34 uomini. Dei 13 casi di maltrattamenti e torture, dieci sono avvenuti nella città di Antakya. In quattro di questi casi, gli attacchi hanno colpito rifugiati siriani e hanno, dunque, avuto anche una matrice xenofoba. Il 17 marzo Amnesty e Human rights watch hanno inviato le conclusioni delle loro ricerche ai ministri dell’Interno e della Giustizia, chiedendo se fossero state avviate indagini sulle denunce e sui video che circolavano sui social media. Il 29 marzo la direzione per i diritti umani del ministero della Giustizia ha risposto, a nome di entrambi i dicasteri, sostenendo che le due organizzazioni avevano presentato “denunce generiche prive di fondamento” ma “non ha fornito risposte sui singoli casi segnalati né sulle prassi di controllo dell’ordine pubblico in vigore nelle zone sottoposte allo stato d’emergenza”.
Molte delle vittime hanno raccontato di essere state fermate da poliziotti, gendarmi o soldati mentre stavano prendendo parte alle ricerche e ai soccorsi o semplicemente mentre erano in giro nei quartieri di Antakya. Nella maggior parte dei casi, non sono state trasferite in luoghi di custodia ufficiali ma sono state picchiate sul posto od obbligate a sdraiarsi a terra o a inginocchiarsi mentre venivano prese a calci e a schiaffi e insultate a lungo, a volte già ammanettate. Alcune di loro sono state costrette a confessare reati. Tuttavia, “sono state aperte indagini solo in due casi e ciò lascia supporre che non vi fosse alcun concreto sospetto che le persone fermate stessero compiendo atti illegali”. Le vittime o le loro famiglie hanno sporto denuncia sulle violenze subite solo in sei dei 13 casi esaminati. Tra chi ha presentato denuncia c’è un uomo che, insieme al fratello, è stato sottoposto a una lunga sessione di tortura da parte dei gendarmi. Il fratello è morto nel corso della detenzione. Negli altri sette casi, le vittime non hanno denunciato l’accaduto per timore di rappresaglie e perché ritenevano remote le possibilità di ottenere giustizia. Soprattutto i siriani sono stati più riluttanti a presentare denuncia. Una donna che faceva da interprete per le squadre di ricerca e soccorso arrivate dall’estero ha raccontato: “La maggior parte dei gendarmi tratta noi siriani come ladri. Sono molto aggressivi nei nostri confronti e non accettano che prendiamo parte ai soccorsi”. Amnesty e Human rights watch hanno sollecitato le autorità turche a condurre “indagini penali e amministrative esaustive, rapide e imparziali su tutte le denunce relative a maltrattamenti e torture ad opera di polizia, gendarmeria ed esercito nelle zone colpite dal terremoto, a prescindere dal sospetto di azioni criminali in corso”.