Persone con disabilità: don Arice (Cottolengo), “centri residenziali non siano solo ambienti specialistici, ma anche case”

“La casa non è solo un edificio, ma un termine che nel significato etimologico più profondo rimanda a un’idea di sicurezza, di intimità, di appartenenza”. Lo ha detto stamani don Carmine Arice, padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, intervenendo al seminario “Il Cantiere dell’ospitalità e della casa”, in corso a Catania. “Non sta scritto da nessuna parte che un luogo di cura non possa essere una casa. Certo una casa particolare, in cui si va ad abitare per necessità, raramente per scelta – ha aggiunto –. Un luogo dove si valorizza la dimensione della relazione e del riconoscimento delle identità e delle storie individuali dei suoi abitanti”.
Soffermandosi sull’ospitalità, il padre generale ha quindi spiegato che “ospitare una persona significa implicarla nei confini stessi della propria vita”. “L’ospitalità riguarda la persona intera, non un aspetto o un bisogno particolare di essa. La parola ospitalità è significativamente espressiva di tutto il fenomeno dell’accoglienza: non esiste atto più grande”. È così che, delineando la “sfida futura” dei centri residenziali, padre Arice ha evidenziato che “è quella di diventare non solo ambienti specialistici, ma anche case, perché nessuna persona può vivere dignitosamente in un luogo in cui non si sente parte”. “Serve un luogo in cui la persona possa vivere la propria intimità e possa dire: ‘sì, in fondo… sono stata ancora bene’”.

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