Una sentenza che apre in Perù, già diviso da scontri istituzionali e sociali, due ulteriori delicatissimi fronti, uno interno e uno esterno. Il Tribunale costituzionale, la Suprema Corte del Paese, ha ordinato ieri la liberazione immediata di Alberto Fujimori, presidente del Perù tra il 1990 e il 2000, protagonista di un regime dittatoriale e condannato per crimini contro l’umanità. Già nel marzo 2022, la Corte costituzionale peruviana si era pronunciata a favore della liberazione di Fujimori, ma una successiva sentenza della Corte interamericana dei diritti umani (Cidh) aveva bloccato l’operatività della sentenza.
Ora, la Corte costituzionale nega la competenza della Corte interamericana per stabilire l’inapplicabilità di tale sentenza. In risposta, la Cidh ha emesso in tarda serata un’ulteriore risoluzione che invita lo Stato peruviano a non rilasciare Fujimori.
Nel frattempo, la decisione provoca forti proteste e tensioni nel Paese, dove proprio in questi giorni, a un anno esatto di distanza dal tentativo di golpe dell’ex presidente Pedro Castillo. I familiari delle vittime di La Cantuta e Barrios Altos (i due principali massacri di cui si è macchiato il regime di Fujimori) hanno protestato davanti al Palazzo di Giustizia. Anche le principali organizzazioni per i diritti umani si sono unite alla condanna. In un comunicato stampa, l’Associazione pro diritti umani (Aprodeh) ha esortato gli organi governativi, come il Ministero della Giustizia e l’Istituto penitenziario nazionale del Perù (Inpe), a non rispettare l’ordine, che considerano ingiusto e immorale, contestando il rilascio di coloro che sono stati condannati per crimini contro l’umanità senza aver dimostrato pentimento o aver risarcito le vittime.