“Caratteristica del soldato è la forza, che è una virtù naturale ma che può degenerare in ‘Violenza’, che è un vizio. Compito della Chiesa è educare la forza coniugandola con la ‘Prudenza’, che fa usare la forza nel caso di vera necessità e la ‘Temperanza’, che impone la giusta misura dell’uso della forza. Così la forza si trasforma nella virtù cristiana della ‘Fortezza’ che è la virtù dei veri soldati cristiani e dei martiri”. Lo ha ricordato mons. Giuseppe Mani, arcivescovo emerito di Cagliari, già ordinario militare (1996-2003), celebrando ieri sera, a Roma, il XXV della fondazione del Seminario maggiore dell’Ordinariato militare per l’Italia. “Questo dinamismo cristiano è quello che non fa diventare gli eserciti una banda selvaggia che ignora ogni legge di umana dignità, una banda di terroristi come purtroppo stiamo vedendo” ha spiegato il presule, per il quale “in questo processo la presenza del cappellano è essenziale, un seminario per loro è indispensabile. È indispensabile per formare uomini convinti che la ‘Fortezza’ è più forte della violenza e soprattutto fare dei soldati uomini di coscienza”. Mons. Mani ripetendo la domanda di don Gnocchi, “se è vero che la guerra non la fanno i soldati ma i politici”, ha affermato che “i soldati sono le prime vittime della guerra. È mai possibile che non emergano uomini che si rifiutano di compiere gesti disumani di crudeltà anche se ordinati da superiori che si ritengono legittimi… L’obiezione di coscienza è legittima ed una conquista, non posso non ricordarlo in questo centenario della nascita di don Milani, e i cappellani sono i testimoni del valore della coscienza e i primi educatori delle coscienze dei loro soldati. Il militare non soltanto può essere cristiano ma può aspirare alla santità”. A conforto di questa sua convinzione mons. Mani ha ricordato due esempi “di dedizione” di cui è stato testimone nei sette anni che ha servito l’Ordinariato militare: “Era il 1986 quando i nostri soldati furono mandati in Kosovo in operazione di pace e trovarono una situazione di quel popolo in una povertà spaventosa, le famiglie mancavano di tutto. I nostri militari, tutti giovani, soprattutto meridionali percepivano un buono stipendio, le loro famiglie aspettavano la fine della missione per pagare la casa e loro per sposarsi. I superiori si accorsero che davano tutto a quella povera gente. Si posero il problema e mi invitarono a condividere la decisione se continuare a dare loro lo stipendio oppure capitalizzarlo per il momento del rientro a casa”. “Non mi è capitato più – ha concluso – di dover moderare l’eccesso di carità. Fu fatta anche un’inchiesta tra tutti i soldati presenti nel Kosovo se si sentissero realizzati come soldati nelle operazioni di ‘peace-keeping’. Di questi uomini addestrati alla guerra risposero che si sentivano perfettamente realizzati l’87%. Fu una delle più belle soddisfazioni del Vescovo militare: la mia chiesa era militare per la pace”.