“Medici e strutture ospedaliere non possono essere snaturati rendendoli complici nella somministrazione di farmaci per la morte, finendo per generare sfiducia e diffidenza verso l’intero sistema sanitario”. Lo afferma al Sir Alberto Gambino, professore ordinario di diritto privato all’Università Europea di Roma, di cui è anche prorettore vicario, e presidente di Scienza & Vita, commentando la notizia del suicidio assistito cui è ricorsa “Anna” (nome di fantasia), una donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla.
La morte di “Anna” è avvenuta lo scorso 28 novembre nella sua abitazione di Trieste, ma la notizia è stata diffusa con una nota dell’Associazione Luca Coscioni solo ieri. Per la prima volta la procedura è stata eseguita con l’assistenza completa del Servizio sanitario nazionale che, a seguito dell’ordine del Tribunale di Trieste, ha fornito il farmaco letale e la strumentazione. L’Azienda sanitaria ha invece individuato un medico il quale, su base volontaria, ha provveduto a supportare l’azione richiesta nell’ambito e con i limiti previsti dall’ordinanza cautelare pronunciata dallo stesso Tribunale, il 4 luglio 2023, quindi, precisa la nota, “senza intervenire direttamente nella somministrazione del farmaco, azione che è rimasta di esclusiva spettanza di ‘Anna'”.
“In questo modo – ammonisce Gambino – si ribalta la missione curativa del Servizio sanitario nazionale, con tutte le conseguenze sul prevedibile depotenziamento degli investimenti sulle terapie, a cominciare da quelle sul dolore e le cure palliative”. Inoltre, questo “rischia di spingere, soprattutto i pazienti più fragili, vulnerabili e soli, a prendere in considerazione, in momenti di comprensibile sconforto, anche la possibilità di una procedura assistita di auto-avvelenamento”. Il presidente di Scienza&Vita esprime la preoccupazione che un caso come questo possa essere replicato nel tempo come prassi e protocollo sanitario diventando “un modello, anche culturale, con evidente nocumento verso le fasce di pazienti socialmente più deboli. Dietro una decisione come questa c’è l’idea, non accettabile, che chi è in una condizione di disabilità cronica possa essere equiparato a chi ha una malattia terminale. Con il rischio che in futuro una persona tetraplegica o in una condizione di disabilità grave – situazioni considerate in definitiva non degne di essere vissute – potrebbe sentirsi quasi in dovere sociale di interrompere la propria esistenza”.
Più in generale, il giurista ricorda che nel nostro ordinamento non esiste un diritto alla morte. Di qui il richiamo alla sentenza n. 242 del 2019 con la quale la Corte costituzionale “conferma ancora una volta l’inviolabilità generale del diritto alla vita, primo dei diritti”, e alla sentenza n. 50 del 2022 con la quale la stessa Consulta ricorda che “non esiste nel nostro ordinamento un diritto alla morte” e che “ad essere inviolabile non è il diritto al suicidio assistito ma il diritto alla vita, matrice di ogni diritto”. Pertanto, conclude Gambino, la vita umana “è sempre da tutelare, soprattutto quella più fragile e compromessa dalla malattia, con adeguati sostegni e terapie contro il dolore”.