Il primo “suicidio con le proprie mani di un malato inguaribile, assistito comunque da un medico e portato a compimento nel nostro Paese” non è un “successo”, come sbandierato da molti che parlano anche di “vittoria” con “l’intento di allargare il portone spalancato sull’eutanasia”, bensì una “sconfitta”. Lo afferma in una nota p. Virginio Bebber, presidente Aris, commentando la vicenda di “Anna”, la donna triestina di 55 anni, da 13 malata di sclerosi multipla, morta nella propria abitazione lo scorso 28 novembre, autosomministrandosi il farmaco letale con l’assistenza di un medico del Servizio sanitario nazionale. Sconfitta, prosegue Bebber, di “una comunità incapace di stare vicino a chi soffre, lenire il suo dolore con i tanti mezzi ormai a disposizione, ma soprattutto con la condivisione e l’amore”, accompagnata da una “cecità” che impedisce di “rispondere al dolore se non con la soppressione della vita”. “Sconfitta”, si legge ancora nella nota, “consideriamo noi, operatori sanitari nelle strutture religiose Aris, il non essere ancora riusciti a far comprendere la risposta d’amore che può alleviare ogni sofferenza nell’accompagnare l’uomo al concludersi della sua avventura terrena. Come spesso ripetuto da Papa Francesco, sulla scia del Catechismo della Chiesa, non siamo per l’accanimento terapeutico; piuttosto puntiamo a un potenziamento degli hospice per un’assistenza dignitosa del malato terminale, perché ‘la vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata’”.
Di qui l’invito ad “una riflessione più profonda sulla tragedia di Trieste, sulla sofferenza di questa donna, che non ha trovato alternative migliori che morire, e sulla capacità del tessuto sociale in cui ella è vissuta di assicurarle il necessario sostegno. Per tale motivo e per scongiurare la deriva di una prassi consuetudinaria”, l’Aris, attraverso le strutture associate, “porta avanti da anni un impegno concreto nel potenziamento delle terapie del dolore e degli hospice come luoghi di speranza per le situazioni più disperate. La vita è un dono ma non ci appartiene: dobbiamo solo custodirla e difenderla dal nascere al suo termine naturale. Piuttosto facciamo di più per renderla ancor più degna di essere vissuta e conclusa in serenità”, conclude il presidente.