L’inclusione sociale di persone con disabilità si realizza anche attraverso quella lavorativa. Questo è un aspetto emerso dalla ricerca “Disabilità e povertà nelle famiglie italiane”, condotta da Cbm Italia insieme alla Fondazione Emanuela Zancan Centro Studi e Ricerca sociale, che evidenzia come il disagio lavorativo riguardi in particolare le persone che vivono al Sud e nei contesti più svantaggiati dal punto di vista socioculturale. “Il 38% è inabile al lavoro (quota che sale a 46% al Wud) e il 27% è disoccupato; il 34% (21% al sud) ha ottenuto l’accertamento della disabilità per il collocamento mirato, ma il 51% non ha mai presentato la domanda (percentuale che sale al 65% al Sud e al 60% tra chi vive in famiglie con basso livello educativo) – spiega lo studio -. Poco più di una persona su 5 chiede in modo esplicito maggiori opportunità lavorative e formative sia per sé che per i propri familiari. Il carico di cura è considerato un ostacolo all’occupazione, con pesanti ricadute sul piano economico della famiglia, per questo è necessario favorire politiche di sostegno alla conciliazione tra i tempi lavorativi e di cura”.
Investire nell’inclusione sociale e in quella lavorativa riporta alla questione del “durante e dopo di noi” che emerge in maniera significativa soprattutto dagli approfondimenti qualitativi: diverse famiglie hanno espresso preoccupazioni sul futuro dopo che genitori, fratelli e sorelle non saranno più in grado di prendersi cura della persona con disabilità. Un problema che preoccupa ancora di più le famiglie che vivono in condizioni di disagio socioeconomico e culturale, perché la questione non si limita a individuare la soluzione abitativa ma costituisce un processo da costruire nel tempo, dando modo alla persona con disabilità di fare esperienze per acquisire le autonomie necessarie per vivere fuori dalla famiglia.
Commenta il direttore di Cbm Italia, Massimo Maggio: “Da anni parliamo di quanto debba essere sostenuto e alimentato il protagonismo delle persone con disabilità. Il risultato della nostra ricerca va ancora in questa direzione: le voci delle famiglie che abbiamo ascoltato ci confermano che il disagio sociale e culturale è più opprimente di quello economico. I servizi umanizzati che vengono richiesti devono entrare nel progetto di vita delle persone, per questo dobbiamo pensarli partendo dal riconoscere le risorse ed evidenziare il valore delle famiglie, per ridurre lo stigma e creare opportunità di inclusione. Per affrontare e favorire il ‘durante e dopo di noi’ affinché diventi ‘con noi’”.