Che impatto ha avuto il reddito di cittadinanza sui senza fissa dimora di Roma? Ma soprattutto è stata una misura utile? Non sarebbero preferibili altri tipi di interventi? Le risposte a queste e altre domande sono contenute nel VI Rapporto “La povertà a Roma: un punto di vista”, realizzato dalla Caritas diocesana, che quest’anno ha per tema “Le città parallele”. Presentato questa mattina nella sala Ugo Poletti del Vicariato di Roma, il volume nel terzo capitolo offre una riflessione sulla misura erogata dallo Stato basandosi sui dati emersi da un’indagine svolta tra marzo e maggio 2023 dalla Caritas di Roma in collaborazione con l’Università La Sapienza. Coinvolte nel progetto 280 persone senza dimora ospiti dell’ostello “Don Luigi Di Liegro” alla stazione Termini e della Cittadella della carità “Santa Giacinta” al Casilino. Tra gli intervistati, 33 hanno dichiarato di aver percepito il Reddito di Cittadinanza e 26 di percepirlo ancora, 14 di questi da meno di 2 anni. Per la maggior parte si tratta di uomini soli (perché celibi, separati o divorziati) che hanno conseguito solo la licenza media; in possesso del diploma sono soltanto sei. Alcuni non hanno terminato neanche la scuola dell’obbligo. Ne consegue che nella propria vita hanno svolto professioni generalmente poco qualificate, di scarso prestigio sociale, poco remunerate. “Insomma – si legge nel rapporto –, ci troviamo di fronte alla classica situazione di fragilità nella formazione e nella rete sociale personale, che senza il sostegno del capitale sociale istituzionale e comunitario vive situazioni di emarginazione estrema. Infatti, nel caso dei senza dimora ci troviamo di fronte ad una condizione che rimanda chiaramente alla presenza di una serie di fragilità che rendono la persona poco adatta, e nel contempo poco appetibile, per il mercato del lavoro”. In altre parole, il Reddito di cittadinanza non è la misura più idonea per i senza fissa dimora. Vi sarebbe un sostanziale cambio di rotta se ci si concentrasse sul coinvolgimento delle 280 persone intervistate in attività di pubblica utilità “svincolate da una logica workfarista”. Realizzate nell’ambito di un piano di interventi individuale e coordinate dal servizio sociale, queste attività, supportate anche da interventi integrati sociosanitari, possono sfociare in una vera inclusione dei senza dimora, “magari anche attraverso paralleli programmi di housing”. Secondo il rapporto questo sarebbe il momento giusto per realizzare questi progetti di inclusione, previsti anche dal Piano Nazionale Ripresa e Resilienza che punta a mettere in atto azioni a favore di persone in condizione di estrema emarginazione e di deprivazione abitativa. “Oggi – è specificato ancora nel rapporto – ci sarebbero anche le risorse per poter dare avvio a programmi e progetti integrati, capaci di coinvolgere tutte le realtà chiamate a dare un contributo alla costruzione di una società inclusiva: lo Stato, le famiglie, ma anche il privato e il privato sociale. L’occasione è ghiotta, ci sono risorse per ripartire, speriamo di non vederle ancora una volta passare utilizzate invano sotto i nostri occhi”.