“Credo che la giustizia riparativa nel minorile abbia funzionato. Ho visto una dinamica relazionale, visionata attentamente e presidiata dal giudice, che ha dato esiti assolutamente favorevoli. Era un istituto immanente nel sistema e creato dalla giurisprudenza e che ha funzionato nel quadro del processo minorile”. Lo ha detto Antonio Sangermano, capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, intervenendo alla presentazione, oggi a Roma, di un’indagine sulla giustizia riparativa, condotta dall’Agia in collaborazione con il Ministero della Giustizia e l’Istituto degli innocenti. “È una grande sfida culturale – ha sottolineato -. Mi piace sempre citare una frase di Fabrizio De André: ‘Il dolore degli altri è sempre un dolore a metà’. Ecco, il dolore degli altri, per essere realmente compreso, deve diventare il nostro dolore, bisogna somatizzare, interiorizzare, mentalizzare il dolore, non solo quello che si è inflitto, il dolore in generale, per cercare di comprendere, per quanto possibile, la valenza pervasiva, distruttiva, disgregante, che è in grado di attuare: dal dolore del ragazzino o della ragazzina vessati dal bullismo al dolore della mamma che vede il proprio figlio ammazzato in mezzo ad una strada, magari per una sciocchezza. Dunque, considerando la centralità del tema del dolore nella vita, ho sempre detto che la Procura minorile è un avamposto nella sofferenza, perché non c’è un dolore peggiore di quello dei bambini. Nel diritto penale è centrale il dolore, tanto che possiamo dire che il diritto penale è il diritto del dolore, perché il reato ha alla base una lesione che infligge la sofferenza a qualcuno”. Sangermano ha assicurato: “Ci impegneremo con tutte le risorse per far decollare l’istituto di giustizia riparativa”, ma, ha avvertito, “il collocamento della giustizia riparativa al centro del processo penale può stimolare, in astratto, quelle spinte opportunistiche, strumentali, che ove non attentamente verificate e disvelate possono indirettamente produrre effetti di vittimizzazione secondaria. Tutti questi istituti funzionano nella misura in cui da parte delle persone che vi compartecipano, in una equiprossimità che non può essere astrazione concettuale e normativa, perché una persona ha subito un reato e sta soffrendo e l’altra l’ha realizzato e forse soffre per averlo fatto – ma sono due dolori completamente diversi e non equiparabili sul piano ontologico né tantomeno etico, vi è un’adesione reale, effettiva, psicologica a questo percorso di confronto. Se vi si inseriscono meccanismi di mistificazione, anche argutamente plasmati, il sistema salta”. Di qui il monito: “La giustizia riparativa non deve essere una dark room in cui due demiurghi in una sorta di esoterismo poco verificabile dal giudice gestiscono in toto il percorso. La formazione affidata all’Accademia ha sicuramente il pregio di formare persone valorose, i due mediatori, capaci di verificare l’effettiva adesione al percorso riparativo”. Ricordando che “la giustizia riparativa non è priva di effetti sulla giustizia penale, ad esempio sulla dosimetria della pena, sulla concessione dell’attenuante, sulla sentenza di non luogo a procedere per i reati procedibili a querela, sulla sospensione del processo ancor prima che venga presentata la querela, Sangermano ha ribadito che “tutto questo funzionerà se i mediatori avranno la capacità e la forza di rendere effettivo quel percorso, di renderlo vero, autentico e, nell’equiprossimità, saper distinguere. In questo quadro la giustizia riparativa può acquisire un’importanza strategica. Sta a noi farla funzionare”.