(da Matera) “Il pane unisce, crea legami, ma può anche dividere, essere usato per scavare solchi profondi fra gli esseri umani: quando è sottratto o alterato; quando diventa strumento di potere o di ricatto, di dominio economico e culturale”. A lanciare il monito è stata Giuseppina De Simone, docente di filosofia della religione e teologia fondamentale, nella seconda meditazione del Congresso eucaristico nazionale, dalla cattedrale di Matera. “Nei periodi di estrema fame e durante le peggiori epidemie si macinava e si impastava nelle varie parti del mondo tutto ciò che poteva essere usato come surrogato del grano per necessità, ma anche per speculazione, e si diffondevano così ulteriori terribili malattie che decimavano la popolazione”, ha ricordato la relatrice: “Ancora oggi succede là dove la carestia e la guerra disegnano scenari di miseria e di estrema precarietà. Sulla disponibilità di grano e di pane da sempre si gioca la forza o la debolezza del potere. Affamare un altro popolo vuol dire creare le condizioni per assoggettarlo. Ma anche controllare i flussi e gli approvvigionamenti dei cereali determina una situazione di dipendenza e di controllo della vita di paesi e di popoli, come stiamo purtroppo vedendo nella guerra che si combatte in Ucraina”. “Il pane che manca racconta della drammaticità dei conflitti, anche di quelli dimenticati o nascosti, e della devastazione che producono”, la tesi di De Simone: “Attesta la pervasività dei sistemi di potere: di quelli visibili e di quelli invisibili, che agiscono sulle sorti dei popoli e gestiscono gli equilibri del mondo. La storia del pane di ieri e di oggi racconta gli assoggettamenti e le dipendenze, ma anche i percorsi di liberazione: come il pane azzimo del popolo di Israele o come il pane condiviso con i fuggiaschi e i prigionieri durante i conflitti di ogni tempo, il pane della pietà e della interiore rivolta contro la logica della violenza e della negazione dell’altro, il pane distribuito ai poveri perché custodisca la loro dignità, e il pane ritrovato nel recupero di colture e di tradizioni antiche oltre la massificazione omologante di una certa globalizzazione. Il pane conserva in sé la memoria: di quello che è stato, della parte migliore del passato o delle sue ferite. È viatico per il tempo che viene. Il gusto del pane attraversa il tempo e si apre sull’eternità”.