“Trasmettere la Parola che ci salva, annunciare la buona novella della speranza non è mai facile ma certamente non lo è in modo particolare in tempi di cambiamento sotto molto aspetti: dal clima culturale, al clima meteorologico, al clima delle relazioni tra stati, paesi e culture. In tempi come questo è necessario cambiare anche parole per le nostre chiese, capire quali categorie meglio ci sintonizzano con un tempo nuovo. Come far sì che tali parole lascino trasparire quell’unico grande tesoro che è la Parola che ci salva e ci fonda? Come far trasparire la relazione fondante che ci dona vita, pace e ci convoca come comunità credente?». Da queste domande del teologo cattolico Simone Morandini è partita ieri alla 58ª Sessione di formazione ecumenica del Sae in corso ad Assisi la tavola rotonda con tre figure “storiche” e affezionate all’associazione: il teologo valdese Fulvio Ferrario, il presbitero ortodosso romeno Traian Valdman e la teologa cattolica Cettina Militello, in collegamento da Palermo.
Fulvio Ferrario, docente di Teologia sistematica alla Facoltà valdese di teologia di Roma ha tematizzato tre parole antiche “dal punto di vista di un uomo cristiano di una Chiesa occidentale non specificamente protestante”. La prima parola è “Dio” che “ha il suo posto in tanti discorsi ma è molto meno ovvia di quanto appaia”. C’è chi, come il religioso e poeta svizzero Kurt Marti, ha evidenziato attraverso un testo lirico la “passione” della parola “Dio”, “torturata, disintegrata, ridotta a protesi, l’ultima delle parole, la proletaria del linguaggio”. Ferrario riconosce che “anche nei ‘professionisti’ di Dio esiste una tentazione dell’ovvietà della parola anche in una variante religiosa e teologica”. Ci sarebbero ragioni per invitare a una “sostenuta sobrietà” nel suo uso. Secondo il relatore, “il teologo Hans-Martin Barth condivide, radicalizzate, le preoccupazioni che furono del pastore Dietrich Bonhoeffer: la parola Dio è consumata dalla religione e dall’ateismo. Per evitare il logoramento Hans-Martin Barth ha inventato parole nuove per dire Dio, come ‘fondamento creativo e scopo di ogni vita’ o ‘mistero della vita’”. Dal canto suo Ferrario dice di voler continuare a usare la parola Dio perché “quando dico Dio evoco una storia, non solo la storia biblica, ma la storia delle Chiese, delle persecuzioni. Non si può togliere Dio da questa storia. La fede non vive di concetti ma di una narrazione fondamentale e delle narrazioni che essa ha evocato”.
Un’altra parola antica a cui Ferrario è fedele è la parola “croce” perché “è una parola centrale: parla dell’amore di Dio. Allora perché non dico amore? Perché la croce libera dall’ambiguità della parola ‘amore’. Paolo può parlare di tutta la storia dicendo la parola della croce. Io non riesco a farne a meno”. Infine, riguardo alla terza parola scelta, “salvezza”, il docente della Facoltà valdese dice la problematicità di declinare ai catecumeni di oggi tale concetto. Come parlare di salvezza? Salvezza da che cosa? Un conto è affermare di avere una pista di riflessione sul senso della vita, ma non si tratta della stessa cosa rispetto all’annuncio della salvezza: “Il termine salvezza è centralissimo e nello stesso tempo problematico”.