“Credo profondamente che se Gesù prega affinché noi diventiamo uno, questo significa che se siamo qui, lo siamo perché abbiamo risposto ad una chiamata, ad una vocazione che ci è stata rivolta”. Lo ha detto, stamattina, citando il brano di Giovanni della preghiera di Gesù per l’unità (Gv 17,20-21), la presidente del Segretariato attività ecumeniche (Sae), Erica Sfredda, nell’introduzione ai lavori della 58ª Sessione di formazione promossa dal Sae, alla Domus Pacis di Assisi, sul tema “In tempi oscuri, osare la speranza. Le parole della fede nel succedersi delle generazioni”. Unità, ha proseguito, non significa disconoscere le nostre differenze: “Possiamo essere uno, anche mantenendo le nostre storie e le nostre identità”. Unità non significa nemmeno essere identici: “Anche all’interno delle nostre Chiese non siamo tutti identici, ma, al contrario, le differenze sono la quotidianità all’interno delle nostre stesse realtà ecclesiali. Questo mondo diventato multietnico e multiculturale ci ha insegnato che le differenze non sono una minaccia, ma una benedizione, e che forse il nostro prossimo obiettivo potrebbe essere costruire una società interetnica e interculturale, nella quale possano arricchirsi reciprocamente tanti modi di esistere, ma anche tanti modi di vivere la fede, senza per questo perdere la nostra identità”.
Compito del cammino ecumenico, ha continuato la presidente, è favorire il riconoscimento che l’unità è nel Signore che chiama cristiane e cristiani a convertirsi insieme a partire dalle proprie specificità. “Prendere sul serio l’ecumenismo, così come siamo venuti delineandolo, è un vero e proprio cambio di prospettiva e di orizzonte, che trasforma il nostro stesso modo di concepire la nostra fede e il nostro rapporto con la Chiesa e con chi ci vive accanto. Siamo qui per studiare, per pregare, cantare, discutere insieme in modo da liberarci dalla tentazione di considerare il nostro punto di vista come assoluto”.
Nella Sessione del Sae ai 200 partecipanti viene chiesto di mettersi in cammino e “di cercare tutti e tutte insieme quella speranza che ci rende saldi, quella forza che ci caratterizza o che dovrebbe caratterizzarci, come uomini e donne che credono nel Dio di Abramo e Sara, di Isacco e Rebecca e di Giacobbe e Rachele, un Dio che ha ripetutamente benedetto la sua creazione, nonostante le cadute e i continui tradimenti”.
Se, da una parte, c’è la consapevolezza che “il mondo che noi più grandi stiamo consegnando ai nostri figli è un mondo malato”, dall’altra c’è anche quella di essere “testimoni di una speranza che il mondo che ci circonda sembra non conoscere. Perché come credenti possiamo affermare che l’alternativa è possibile, che la speranza non è vana e che solo così si può mettere in moto ciò che ancora non conosciamo. Indubbiamente si tratta di una spes contra spem, una speranza contro la speranza: ma in una situazione in cui non vediamo futuro dobbiamo credere in questo futuro, che ci verrà messo in conto come giustizia”.