Ci dobbiamo “chiedere se il modo con cui oggi proponiamo il Vangelo abbia” una “chiara impronta di un annuncio di vita che illumina il dramma della morte che, in varie forme, grava sul mondo. E dobbiamo ahimè riconoscere che troppo spesso la voce della Chiesa e dei cattolici in questa nostra società risuona piuttosto come un’etica senza grazia, un codice di precetti e non un annuncio di speranza in virtù del quale ‘la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio’ (2Cor 4,15)”. Lo ha affermato ieri l’arcivescovo di Firenze, il card. Giuseppe Betori, durante la celebrazione eucaristica che ha presieduto nella basilica di Aquileia in onore dei santi Ermagora e Fortunato, patroni dell’arcidiocesi di Gorizia e della Regione Friuli Venezia Giulia. Con il cardinale hanno concelebrato l’arcivescovo Carlo Redaelli ed altri presuli provenienti dalla Regione e dalla Slovenia.
Nell’omelia, il porporato ha sottolineato che “la Chiesa nasce e rinasce dall’annuncio, ma questo non si configura come trasmissione di un’informazione intorno a Dio e al suo Figlio, ma è il frutto della fede che ne fa l’espressione di un’esperienza di incontro con il mistero di Dio e quindi una testimonianza”. “Annunciare è testimoniare”, ha ammonito il cardinale, secondo cui “è inutile domandarci quali nuovi modi di linguaggio e di gesti dobbiamo assumere per incontrare gli uomini e le donne del nostro tempo, se non ci interroghiamo previamente sullo spessore testimoniale del nostro agire cristiano”. “Non voglio certamente sminuire il doveroso impegno a comprendere gli interrogativi della cultura in cui siamo immersi e a cercare le forme più adatte per essere presenza viva nella nostra società, ma – ha osservato – la credibilità del nostro annuncio è anzitutto legata al fatto che esso sia l’esito di un processo di fede che ci ha trasformato”. Richiamando l’immagine del pastore Ermacora, affiancato dal diacono Fortunato, Betori ha evidenziato come ricordino che “l’azione pastorale non è mai azione di un individuo, il pastore, ma vede la partecipazione al suo ministero al fine di manifestare nella Chiesa il volto di Cristo, unico pastore. È il quadro in cui si colloca anche il processo sinodale a cui la Chiesa è chiamata in questo tempo”.