Serve “un sistema che parta dalle persone e non dalle sostanze. Inseguire le sostanze è una battaglia che abbiamo già ampiamente perduto. Il contrasto dell’offerta è senza dubbio importante, ma non può prescindere da una altrettanto convinta e determinata azione per la riduzione della domanda. Ma per agire seriamente sulla domanda occorre tornare al territorio, anzi alla comunità. Occorre passare dalle comunità alla comunità. Ridisegnare il sistema in senso circolare, con un continuo interscambio integrato tra interventi territoriali, di prossimità, prevenzione e percorsi terapeutici riabilitativi. Sviluppare gli interventi all’interno di un reale sistema integrato, pubblico e privato sociale, capace di garantire non solo la pari dignità, ma anche e soprattutto l’effettiva esigibilità del diritto di scelta del cittadino utente”. È l’indicazione offerta oggi da Luciano Squillaci, presidente della Fict, nella sessione dedicata a “Le comunità terapeutiche tra vecchie e nuove dipendenze, il profumo della relazione che cura”, nell’ambito del convegno nazionale di pastorale della salute, in corso a Cagliari.
“Occorre giocare d’anticipo e aiutare subito il soggetto in crescita a trovare un proprio equilibrio con la certezza che i genitori sono il principale punto di appoggio. Ovviamente esistono genitori che faticano a portare avanti adeguatamente il proprio ruolo e non è un problema di cultura, ma di coscienza di maturità e di strumenti educativi adeguati. Ed è per questo motivo che il processo di prevenzione non può gravare solo ed esclusivamente sulla famiglia, ma deve avvenire attraverso il supporto ed il coinvolgimento della comunità di appartenenza e per comunità si intendono le amministrazioni locali e le principali agenzie educative. Fondamentale pertanto deve risultare il lavoro di ‘comunità’ territoriale”, ha evidenziato Squillaci, che ha ricordato: “Ci sono troppi giovani che iniziano a ‘farsi’ o restano vittime dell’alcol e che arrivano alla nostra osservazione dopo ben 6-8 anni di uso sfrenato di sostanze. Questo ritardo di diagnosi e di intervento è inaccettabile, soprattutto per adolescenti nel pieno dello sviluppo cerebrale e psichico che verranno sicuramente compromessi, se non si interviene. I territori possono contribuire a costruire percorsi di comunicazione sia scientifici che culturali per raggiungere in modo più diretto i cittadini per costruire messaggi di salute e di buone pratiche per i giovani”.
Ripartire dai giovani, ha avvisato, “non significa ripartire solo dai loro bisogni, ma anche e soprattutto dai loro ‘sogni’! Occorre quindi ripensare il modello educativo di intervento proiettandolo sul futuro e non fondandolo esclusivamente sulle esigenze, pure importanti, del ‘qui ed ora’”. E ha concluso: “È necessario restituire in termini educativi la ‘speranza’, mostrando in concreto ai ragazzi la possibilità di essere protagonisti del proprio cammino e non semplici destinatari di proposte altrui, peraltro tiepide e stantie”.