(Da Kiev) “Non abbiamo scelto di fare la guerra, ma siamo stati costretti. Difendere il proprio Paese è una responsabilità civile e tutti sono tenuti a farlo e non necessariamente con le armi”: parola di mons. Vitalii Kryvytskyi, arcivescovo latino della diocesi di Kiev-Zhytomyr (200mila cattolici suddivisi in 160 parrocchie), all’interno della quale insistono città e villaggi come Bucha, Polissyia, Irpin, Vorzel, “martiri” della guerra scoppiata dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio scorso. Località occupate dai russi e teatro di atrocità ai danni di civili. Durante un incontro avuto nel pomeriggio di ieri nella capitale ucraina con Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) Italia, al quale era presente anche il Sir, l’arcivescovo ha descritto come la diocesi sta vivendo questo conflitto: “La guerra sta riavvicinando alla fede tante persone che da anni non frequentavano i sacramenti. Ora hanno ricominciato a pregare e a recarsi in chiesa. Molti uomini, al fronte a combattere, quando chiamano le loro famiglie chiedono sempre preghiere e vicinanza spirituale. Ho incontrato molti giovani, in procinto di partire per la prima linea, che chiedevano benedizioni e preghiere alla loro comunità parrocchiale. Tanti genitori affidano i loro figli all’intercessione della Madonna”.
In questi due mesi e più di guerra, ha aggiunto mons. Kryvytskyi, “i nostri sacerdoti sono rimasti a fianco delle loro comunità. Un gesto apprezzato non solo dai nostri fedeli ma anche da quelli di altre fedi e denominazioni religiose. Sappiamo di preti rimasti nei villaggi fino a quando anche l’ultimo dei fedeli era andato via. A lasciare sono stati solo i preti stranieri. Nei villaggi più esposti agli attacchi e ai saccheggi russi abbiamo chiesto a laici impegnati di andare nelle proprie chiese, aprire il tabernacolo e consumare le ostie consacrate così da evitare profanazioni”. Il dibattito sulla guerra non è nuovo nella diocesi della capitale ma risale al 2014, quando scoppiò il conflitto del Donbass: “I nostri sacerdoti che vivono nell’Est del Paese – ha spiegato il presule – hanno visto e patito tutta la drammaticità della guerra, sin dal 2014. Per loro benedire un soldato che va a difendere con le armi il proprio Paese è cosa naturale. Lo è meno per quei preti che non vengono da zone di guerra. Io stesso ho cambiato atteggiamento dopo aver visitato alcune parrocchie nel Donbass. Le armi servono per difenderci quando veniamo aggrediti. Benedire un soldato che difende la patria è un diritto”. Per mons. Kryvytskyi la vera domanda è: “Come dobbiamo difenderci?”. La risposta sta tutta in una “linea rossa che non deve essere valicata: difendere i nostri territori non significa poter torturare i prigionieri. I morti, poi, vanno sepolti. Ogni soldato è stato chiamato a difendere il proprio Paese ma non ad odiare il nemico. Non possiamo disertare, ciascuno di noi è tenuto alla difesa del suo Paese. Come dice la Scrittura: dai a Cesare quel che è di Cesare. Non è un’astrazione anche se vorremmo che lo fosse. Non abbiamo scelto di fare la guerra. Difendiamo ma dobbiamo essere pronti anche a riconciliarci nella consapevolezza che il perdono presuppone un percorso lungo che va fatto”.