A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, “Lavialibera”, bimestrale di Libera e Gruppo Abele propone un numero speciale: una riflessione a più voci sugli anni che ci separano dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un antidoto contro la retorica delle celebrazioni. “Abbiamo chiamato a raccolta chi ha vissuto o si è confrontato da vicino con quei tragici eventi, come studioso, magistrato, giornalista, politico o attivista – scrive la direttrice Elena Ciccarello –. Ci hanno restituito un bilancio personale, tra memoria e analisi, che nella schiettezza dei toni e nella differenza delle posizioni si presenta come un buon antidoto contro la celebrazione vuota e superficiale di uno dei passaggi più drammatici della nostra storia recente”. Il dossier raccoglie i contributi di Rosy Bindi, Gian Carlo Caselli, Augusto Cavadi, Nando dalla Chiesa, Enrico Deaglio, Federico Cafiero De Raho, Alessandra Dino, Nino Fasullo, Carlo Lucarelli, Enza Rando, Isaia Sales, Anna Puglisi e Umberto Santino, Roberto Saviano e Rocco Sciarrone.
“Trent’anni dalle stragi di mafia, ed ecco che si torna a parlarne. Sarebbe un crimine trasformare questa ricorrenza in un’occasione per spendere parole vuote, al solo scopo di timbrare un anniversario che invece pesa ancora, e non poco, sulla coscienza dell’Italia intera. Per celebrare questo trentennale non servono allora parole leggere, ma scelte e gesti pesanti – scrive nel suo editoriale Luigi Ciotti, presidente di Libera e Gruppo Abele -. Questi trent’anni hanno visto altri passaggi di peso, nel contrasto alle mafie: nuove inchieste e nuove leggi, nuovi filoni di studio e nuove proposte didattiche, nuovi progetti di antimafia civile e nuove alleanze. Tuttavia sarebbe ingenuo ignorare che ci sono state altrettante leggerezze, inadeguatezze, inadempienze. E nuove vittime: tante altre vittime innocenti. A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio dobbiamo dare peso, forma ed efficacia politica alla necessità di potenziare il contrasto al crimine nelle sue varie forme: dalla violenza alla corruzione, dai mercati di morte delle armi e della droga all’estorsione e all’usura, dalla tratta agli ecoreati, dal caporalato, all’abusivismo, ai reati finanziari”. Per il sacerdote servono “meno parole e più fatti! Meno celebrazioni sterili del passato e più attenzione all’oggi, col suo carico di ingiustizie e sofferenze. Senza cedere alla normalizzazione di una presenza mafiosa sempre meglio mimetizzata. E senza paura di definire mafioso tutto ciò che dalle mafie prende esempio: il capitalismo predatorio e senza regole, una politica opportunista, serva del consenso più che al servizio del bene comune, e una cultura della competizione, della sopraffazione e dell’egoismo che contagia ormai qualsiasi settore della vita privata e pubblica”.