(DIRE – SIR) – Per raggiungere il rifugio antiaereo, si passa davanti alla cassetta postale di San Valentino. Accanto ai cuori di carta colorata, ci sono già le prime lettere. “Domani sarà stracolma”, sorride Nataliya Shcheniavska, la direttrice della Scuola 113, a Darnytska, un quartiere alla periferia sud-orientale di Kiev dove gli studenti arrivano anche dai villaggi. È lei a portarci giù nel tunnel. La parete è tappezzata di manifesti e infografiche che spiegano come si carica un kalashnikov, com’è fatta una mina o quali sono le “basi delle azioni militari”. Sulla sinistra, superata la porta verniciata di verde, si entra nella sala principale del bunker. È largo sei metri e lungo una ventina e dovrebbe permettere, insieme con le altre stanze, sia pure solo per poche ore, di accogliere tutti gli alunni. Ci sono tavoli a ridosso dei muri con bottiglioni d’acqua e pacchi di biscotti in corrispondenza dei numeri e delle lettere che indicano le classi. “Le esercitazioni per raggiungere il rifugio in caso di bombardamento le facciamo una volta alla settimana, nell’ora di ‘difesa della patria’”, spiega la direttrice: “Questo insegnamento esisteva già ai tempi dell’Unione Sovietica e per noi in fondo non c’è nulla di straordinario”. Il rifugio è stato però rimesso a nuovo nel 2014, l’anno dell’annessione russa della Crimea e dell’inizio del conflitto nel Donbass, nell’est dell’Ucraina, dove gruppi ribelli hanno proclamato repubbliche separatiste. Da alcuni mesi le tensioni sono tornate a crescere, con gli Stati Uniti che accusano Mosca di pianificare un’invasione del Paese e la Russia che chiede invece garanzie rispetto al rischio di un ulteriore allargamento della Nato con un’adesione di Kiev. Shcheniavska è fiduciosa che il bunker non servirà: “Continuo a credere che alla fine a prevalere saranno la diplomazia e la pace, che è un tesoro troppo prezioso”. Sembrano pensarla allo stesso modo i ragazzi della Scuola 113. In palestra oggi c’è lezione di basket e una coppia si fa avanti. Lei ha 19 anni e si chiama Vladislava Ruzhentseva. Lui, Valerij Bindarets, è un po’ più grande. Studia giurisprudenza all’università ma, insieme con la ragazza, è venuto a scuola a trovare alcuni amici. “Ci fa soffrire sentir parlare di un rischio di guerra ma noi cerchiamo di vivere come sempre”, dice Vladislava. “Desideriamo stare bene, divertirci e costruirci un futuro che ci piaccia”. Lei pensa di iscriversi alla facoltà di giornalismo e non si tiene: “I media stanno facendo molta propaganda, rischiando di creare panico tra la gente; dall’estero arrivano notizie non vere, su manovre di invasione o armamenti che ci sarebbero stati forniti dagli Stati Uniti”. Valerij le dà ragione. Parla di “guerra mediatica”, preferendo non entrare nel merito delle accuse che i Paesi della Nato e la Russia si sono scambiati nelle ultime settimane. “Bisogna solo sperare e credere che, con una posta in gioco così alta, sarà trovata una soluzione diplomatica”.
Si avvicina Tatjana Jurevna, la vicedirettrice della Scuola. “Tutti qui in Ucraina abbiamo parenti o amici in Russia, siamo popoli fratelli”, dice. “Spero che questa sia solo una follia dei politici e che gli ucraini possano continuare a vivere in pace, anche con l’Europa e con l’America”. Siamo sulla porta, Valerij e Vladislava salutano. Fuori brilla la neve: è una giornata di sole. (www.dire.it)