(da Verona) “La paura può servire a salvarsi la vita in qualche circostanza, ma non può permettere di ricostruire una società. Per ricostruirla non è sufficiente la paura, serva la speranza, la fiducia nell’altro e la possibilità di camminare insieme”. Lo ha affermato ieri sera mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, intervenendo alla serata inaugurale della XII edizione del Festival della Dottrina sociale che si svolgerà fino a domenica nella città scaligera sul tema “Costruire la fiducia – La passione dell’incontro”.
Rispondendo alle domande di Marco Tarquinio, direttore di “Avvenire”, mons. Baturi ha rilevato che “se la guerra è globale, la risposta dev’essere radicale”. “La prima radicalità di risposta alla guerra – ha spiegato – è individuarne la ragione profonda; la prima forma di violenza è la menzogna”. Dopo aver ricordato che “non è mai lecito ad un uomo uccidere un altro uomo”, il segretario generale della Cei ha giudicato “gravissimo” il fatto che “non ci sia orrore nel modo in cui parliamo della guerra”. “La nostra umanità – ha proseguito – grida: ‘non è giusto!’. La guerra non è giusta. Finché il dolore dell’uomo non diventa ragione sociale, finché l’amore dell’uomo non diventa ragione politica è una cosa grave”. E dopo aver richiamato all’impegno individuale – “a cosa diamo fiducia?” negli acquisti, nella lettura dei giornali… – ha rilevato che serve una “politica per la pace giusta che implica una prassi di dialogo che va al più presto suggerita, se non indotta”.
Infine, un passaggio sul fatto che “la percezione del mio vivere si forma nell’incontro con l’altro, nello sguardo, nella capacità di ascoltare la sua vita”. Per questo serve “educare a vivere i rapporti dentro un’esperienza concreta”, perché “l’uomo è più della sua opinione, ha bisogno di confrontarsi, di cercare insieme”. “Il social – ha osservato – tende a scardinare il rapporto tra generazioni, è solo nell’incontro con chi ha accumulato conoscenze ed esperienze che mi faccio un’opinione più libera. Senza l’incontro tra generazione perdiamo memoria e siamo più vulnerabili”.