Oltre 1400 manifestanti uccisi, 11.000 persone arrestate più di 8000 delle quali ancora in carcere, l’ex leader del governo civile Aung San Suu Kyi condannata a sei anni per false accuse e a rischio di ulteriori 100 anni di carcere, molti dei suoi più stretti collaboratori – tra cui il deposto presidente Win Myint – a loro volta condannati. È questo il bilancio, diffuso oggi da Amnesty International, dei 12 mesi seguiti al colpo di stato militare del 1° febbraio 2021 in Myanmar. A questi dati vanno aggiunti il caos, l’insicurezza economica e la crisi sanitaria che stanno mettendo in pericolo la vita di milioni di persone. La recrudescenza dei conflitti tra l’esercito e i vari gruppi armati su base etnica ha costretto centinaia di migliaia di civili alla fuga. “I cinquantacinque milioni di abitanti di Myanmar – dice Ming Yu Hah, vicedirettore delle campagne sull’Asia di Amnesty international – non possono sopportare un ulteriore anno di silenzio e mancanza d’azione da parte di molti governi del mondo. Agire per chiamare a rispondere le forze armate dei crimini commessi in quest’ultimo anno e interrompere le forniture di armi in loro favore sono provvedimenti più che necessari per scongiurare un altro anno di miseria e di morte”. “Con l’approssimarsi dell’anniversario del colpo di stato – prosegue -, i militari di Myanmar hanno ripreso gli attacchi aerei indiscriminati nel sud-est del Paese, bloccato l’afflusso di aiuti umanitari indispensabili a salvare vite umane e lanciato una sanguinosa campagna repressiva contro attivisti e giornalisti. Come in passato in occasione delle operazioni militari contro i rohingya, anche adesso il mondo sta a guardare”. Amnesty rinnova la richiesta al Consiglio di sicurezza Onu “di imporre un embargo totale sulle armi dirette a Myanmar, applicare sanzioni mirate contro i capi delle forze armate e riferire urgentemente la situazione di Myanmar al Tribunale penale internazionale”. Chiede inoltre alle aziende locali e straniere “che sono in partenariato con le forze armate di Myanmar, o con imprese da queste possedute, di porre fine alla collaborazione e al flusso di entrate che i militari usano per compiere le loro operazioni mortali”.